La Fanfara per l’uomo comune di Copland arrangiata in versione funk orchestrale è il segnale che Carlo Conti ha definito la restaurazione del modello Pippo Baudo. La prima serata del 66° Festival di Sanremo ha confermato quanto dimostrato dal conduttore toscano lo scorso anno: la Rai ha bisogno di nazional popolare, di elementi di varietà che la ricongiungano al grande pubblico. E formula che vince non si cambia: Conti ha presentato un festival classico, aggiornato ai tempi, ma intriso di correttezza politica e varietà. Musicale (più o meno), spettacolare e socio-culturale.
Questa edizione 2016, che Conti conduce assieme alla spigliatissima Virginia Raffaele, alla mannequin (in tutti i sensi) Madalina Ghenea e all’impresentabile Gabriel Garko (quando sul palco è stato definito grande attore è corso un brivido lungo molte schiene), è il canone festivaliero nel bene e nel male: i cantanti in gara sono solo una delle componenti di un varietà abnorme fatto per creare un evento mediatico più che per mostrare il meglio del pop nostrano. E – fatti salvi i dati auditel che al momento della scrittura non sono noti – i social hanno dimostrato un interesse acceso, venato della solita ironia, per la manifestazione.
Dei 10 cantanti ieri in gara (gli altri 10 si esibiscono oggi, così come i giovani), sono pochi quelli che si salvano, almeno a un primo ascolto, in una serata musicalmente davvero mediocre e poco comprensibile: Enrico Ruggeri che porta un pezzo di grinta, furbizia e groove, tra rock, ska e tastiere new wave, con ritornello – come spesso – irresistibile; Bluvertigo (a rischio eliminazione) che mescolano il loro pop sbilenco alla vena di canzone d’epoca del Morgan solista – il quale purtroppo compromette il pezzo salendo sul palco senza voce; e Stadio, con una canzone tipicamente loro che però mostra il mestiere e la cura di chi sa cos’è una canzone.
Tutti gli altri sfoderano brani dai ritmi lenti tutti uguali, tra il mediocre e il pessimo, privi di personalità, stile, capacità vocali, o perlomeno di ritornelli cantabili che almeno potessero superare la prova del primo ascolto: Arisa sfoggia il più brutto vestito della serata e una canzoncina disneyana senza passione, Dear Jack con il nuovo cantante indistinguibile da un ragazzino con poca voce, Lorenzo Fragola che perpetua il mistero della sua vittoria a X-Factor, Fornaciari che prova, inutilmente, la carta dell’impegno, Noemi a cui un pezzo di Masini sembra forse uguale a uno di Vasco, Caccamo e Iurato alle prese con modalità sanremesi che non sono in grado di reinterpretare (versione stinta di Leali e Oxa). Almeno Rocco Hunt, col solito rap populista e demagogico, ci mette il ritmo del funk.
Su 10, almeno 6 pezzi sono intercambiabili e privi di ogni mordente, nemmeno quello del brutto consapevole o del baraccone italiota (come poteva essere Il volo lo scorso anno). Sono gli ospiti a portare alto il nome del pop: Elton John al piano tra classici e novità, Laura Pausini in un coinvolgente medley. E sono i comici outsider (non certo Aldo Giovanni e Giacomo costretti al riciclo di Pdor) a salvare un po’ il varietà: Raffaele ha tenuto il palco per tre ore imitando Sabrina Ferilli con umorismo verace e affilato, mentre Rocco Tanica ha condotto in modo superbo il suo piccolo angolo finale di rassegna stampa (il mensile porno come organo di riferimento di La destra di Storace).
Non è questione di rodaggio, ché i meccanismi e i loro ritmi smorti sono sempre quelli e non s’inceppano, ma di formula: immobile. E forse per questo vincente, innocua e funzionante, capace di attrarre tutti, con almeno qualcosa che possa andare bene a ogni gusto conservatore o progressista che sia, mentre all’apparenza li respinge. Non è forse questo il segreto di Pippo Baudo e dello spettacolo nazional-popolare?