Nel settembre 2004, Mary Mapes (Cate Blanchette), produttrice dell’affermato programma di inchiesta giornalistica “60 Minutes”, condotto da Dan Rather (Robert Redford) e trasmesso dalla Cbs, manda in onda una puntata dedicata alla carriera militare di George W. Bush, quarantatreesimo Presidente degli Stati Uniti d’America e candidato per un secondo mandato. Si parla di un suo sospetto trasferimento alla Guardia nazionale finalizzato a evitare i pericoli della guerra in Vietnam. L’inchiesta in breve diviene oggetto dell’attenzione dei media e subito messa in discussione. I due protagonisti sperimentano così come “raccontare tutta la verità vuol dire rischiare tutto”.
A poche settimane da Il caso Spotlight, esce in Italia Truth, un altro film di inchiesta giornalistica. Senza ottenere l’incenso della critica, James Vanderbilt alla sua opera prima, riesce a confezionare un film interessante, che ha poco da invidiare al suo più noto predecessore. Entrambi buoni film, ma senza memorabili scintille.
Anche in questo caso, i maggiori pregi del film non sono da riconoscere alla regia, né al ritmo (a volte un po’ stentato), e nemmeno agli attori (peraltro molto bravi e convincenti). Da premiare, più che altro, la sua capacità di sollevare interrogativi sul mestiere del giornalista e sui delicati rapporti tra giornalismo e potere.
Senza entrare troppo nello specifico della trama, certo è che la storia ci ha consegnato un secondo mandato del Presidente George W. Bush (per intenderci Bush figlio) e che dunque lo scandalo giornalistico che il film racconta non ha evidentemente segnato l’affermazione politica e la longevità di uno dei più discussi presidenti americani degli ultimi decenni.
Tratto dal libro “Truth and Duty” della stessa Mary Mapes, Truth non mette mai in discussione la verità dell’accusa, presentata con taglio unilaterale, ma mostra con grande chiarezza i meccanismi alla base della verità pubblica, che spesso è infinitamente diversa dalla realtà. Ciò che è scomodo, difatti, non ha diritto di esistere. E il modo più facile di ottenere lo scopo è quello che in Italia abbiamo battezzato “metodo Boffo”, la macchina del fango che scredita le persone, distrugge le carriere, rovina l’esistenza. Un metodo rodato, sistematico, criminale. Applicato in America, come in Italia, e complice a mio parere di molto relativismo contemporaneo.
Screditare persone, mestieri, categorie, si traduce nello screditare tutto. Cresce così di conseguenza, con grande forza e ingenua speranza, la verità dal basso della sharing economy (a cui siamo per alcuni versi debitori), e si eclissa goffamente anno dopo anno, e per molti versi a ragione, sia nei film che nella realtà la verità giornalistica, quella giudiziaria, e quella politica se mai è esistita. Così all’orizzonte del globo democraticamente tecnocratico si profilano le verità molteplici, variabili e soggettive. Se non c’è più spazio per la Verità, ognuno si costruisce la sua personale, e non è detto che non sia migliore di quella dall’alto.
Truth denuncia una macchia nel passato di Bush, una “raccomandazione” che presso l’opinione pubblica italiana, profondamente sedata e usa a scandali e relativismi ben peggiori, sarebbe passata in totale silenzio. Denuncia una più che probabile cospirazione. E denuncia la sconfitta del Giornalismo, gran Cavaliere dell’intelletto e della verità. Forse che la sua sconfitta sia collegata alla precipitosa decadenza dell’Homo Sapiens? Gli indizi ci sono tutti.