Stupisce tanto il successo della fiction Don Matteo (di cui si è già parlato su queste pagine), sia in numero di telespettatori che in lunghezza della serie: la prima puntata risale al gennaio 2000. Se i motivi del successo per l’altra fiction di Rai 1, ovvero Il Commissario Montalbano, sono più evidenti come già avevo scritto in passato, la spiegazione per Don Matteo può svelare aspetti inconsueti.



La prima volta che ho visto una puntata di Don Matteo, la mente era automaticamente ritornata alla saga italiana più antica in cui il protagonista vestisse una tonaca: Don Camillo. Certo, quelli con Fernandel non erano puntate, ma film, ma erano pur stati ideati in serie, ognuno con gli stessi protagonisti e negli stessi luoghi, replicati a più riprese negli anni a seguire. Là erano gli anni ’50, erano passati solo poco più di vent’anni da quando i Patti Lateranensi avevano sancito il cattolicesimo come religione di Stato. Chi vedeva un prete in televisione o al cinema, vedeva una figura qualunque, come ad esempio un poliziotto, un avvocato, un panettiere. Poi però da quell’epoca è cambiato molto: da un lato i flussi migratori hanno introdotto nel nostro Paese sempre più persone che credono in diverse religioni, dall’altro è aumentato il numero di chi sostiene di non credere o nel Messaggio o nelle istituzioni ecclesiastiche.



In questo clima si sono alzate a più riprese voci che chiedevano l’abolizione dei crocifissi appesi al muro nelle aule scolastiche, fino all’abolizione dei presepi, accusando entrambi di non essere rispettosi delle culture altre da quella cristiana. E in questo clima si pone Don Matteo: una fiction in cui il protagonista è un sacerdote, che va a trovare le suore nel convento vicino, che siede nella sua chiesa davanti al grande crocifisso ligneo. Tanti segni cattolici messi in bella vista ogni settimana per diversi mesi in prima serata su uno dei canali principali della televisione: da questo punto di vista mi è da subito sembrata una fiction “politicamente scorretta”.



Ma allora come mai tanto successo? Un primo aspetto è che forse quei segni aperti di religione non sono sembrati irrispettosi delle altre culture, perché nell’immaginario collettivo i protagonisti delle serie di celluloide sono ancora ritenuti semplice finzione, pura fantasia spesso molto lontana dalla realtà del quotidiano. Quindi, quello che nella realtà infastidisce è comunque lecito nell’immaginario.

Un secondo aspetto da considerare è che don Matteo non lo vediamo mai mentre dice messa o mentre predica dal pulpito. Il prete umbro non offre dottrina, dogmi, precetti: tutto quanto ha allontanato tanti credenti dalla Chiesa, contrariati da un ecumenismo che pareva solo di facciata. Don Matteo offre un messaggio che è stile di vita: sta vicino a chi soffre, dà parole di conforto e speranza a chi non trova più nulla di positivo nella vita, mostra che l’onestà è un valore che non fallisce mai. Nella tua solitudine ti dice che Dio ti è vicino e non ti lascia mai solo; nella tua colpa ti dice che Dio ti perdona sempre, basta solo che tu glielo chieda. E non rinnega i propri limiti di uomo: l’abbiamo visto in una delle puntate più recenti riconoscere di non avere la forza di perdonare qualsiasi ingiustizia, come invece riesce a Dio. Di fronte alle difficoltà della vita di ogni giorno, quelle parole di perdono, pace, speranza, onestà, dette da qualcuno che sa di essere un uomo semplice come tutti noi, arrivano come una consolazione alle orecchie dello spettatore.

Così in Don Matteo si applicano le parole del recente editoriale di De Haro: San Paolo ha potuto parlare all’Areopago perché si è, per così dire, limitato ad annunciare la Resurrezione, non ha iniziato dalle conseguenze, cioè col condannare comportamenti e usi contrari all’insegnamento cristiano. È il come ci si comporta in modo cristiano a provocare o meno reazioni di ostilità.

Il terzo aspetto, più che una riflessione è un dubbio. Che coloro che si alzano contro i crocifissi ai muri e i presepi nelle scuole non siano la maggioranza, ma solo delle voci che gridano più forte per farsi sentire. Forse la maggioranza delle persone, poiché rispetta davvero tutte le culture, rispetta anche i segni del cattolicesimo, che non rappresentano un obbligo, ma le radici cristiane della cultura occidentale. Qui tornano in mente le parole di una grande giornalista atea: “Amo tanto la vita da non potermi non dire cristiana”, Oriana Fallaci.

E quello che a prima vista sembra “politicamente scorretto”, a un’analisi più approfondita non si rivela altro che qualcosa lì a ricordarci quale grande valore sia la vita di ogni uomo.