David Grieco dirige il film (La macchinazione) che racconta gli ultimi mesi di vita del grande Pier Paolo Pasolini e cerca di fare luce sulla sua tragica morte, dagli antefatti ai presunti colpevoli, passando per la lavorazione del film Salò o le 120 giornate di Sodoma di cui Pasolini era il regista e del suo “Petrolio”. 



La versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini rimase quella che per molti era comoda: tragedia a sfondo sessuale, conforme alla figura fortemente criticata dell’intellettuale che si dichiarava senza alcuna riserva omosessuale. In più in tal modo non veniva alla luce alcun riferimento al fatto che il noto intellettuale si fosse spinto troppo a fondo nel voler scoprire qualcosa di più sulle mosse disoneste di un certo Cefis e su un sistema politico terribilmente corrotto. Il diciassettenne Pino Pelosi lo uccise nella notte tra l’1 e il 2 novembre all’idroscalo di Ostia. La causa: una rissa finita male, di cui l’iniziatore sarebbe stato lo stesso rimasto ucciso. Grieco capovolge questa versione, dandone una propria, molto verosimile, secondo cui l’omicidio sarebbe stata l’unica possibilità di chiudere la bocca a chi stava per pubblicare qualcosa di molto scottante.



La figura di Pasolini è resa molto bene da un somigliantissimo Massimo Ranieri, che svolge egregiamente il suo ruolo. Il regista concentra la narrazione intorno al furto delle pellicole del film “Salò” per cui fu chiesto un ingente riscatto, proprio da criminali vicini a Pino. Episodio che sembra essere poi solo un pretesto per colpire nel segno e togliere di mezzo lo scrittore, puntando proprio sul suo punto debole: l’omosessualità e il suo rapporto con il giovane. 

È fondamentale, infatti, la figura di Pino che con Pasolini ha un legame, sì di interesse, ma in fondo di affetto. Dai bassifondi di Roma, il ragazzo viene coinvolto, a sua insaputa, nel complotto (secondo la visione del regista) e fatto passare per l’uccisore materiale di Pasolini e costretto a dichiararsi tale da figure che Grieco non si occupa di definire con estrema precisione. Il suo obiettivo non è quello: vuole invece puntare il riflettore sull’operato e sui sentimenti, anche di profonda paura, del grande scrittore. 

Con la sceneggiatura del recentemente scomparso Guido Bulla, il regista, collaboratore a suo tempo di Pasolini, mette in scena una possibile e verosimile versione di come andarono realmente i fatti. La narrazione è un susseguirsi di cambi di scena tra un Pasolini al lavoro e in contatto con informatori e le macchinazioni alle sue spalle. Non è un caso il continuo riferimento alla lavorazione dell’ultima opera, “Petrolio”, rimasta poi incompiuta del grande intellettuale. Una sorta di congedo da un mondo che lo stava condannando per aver “ficcato il naso” dove non avrebbe dovuto.

E forse proprio per le sue idee politiche Pasolini era così scomodo, non tanto per l’immagine scandalosa che dava di sé e che al tempo non era tollerata. Il suo “Petrolio”, elemento centrale de La macchinazione, è la copertina di un Pasolini alla ricerca di risposte e di verità e costituisce il filo conduttore di un film da due facce: da una parte la cultura che non si spaventa di fronte alle minacce e dall’altra una macchinazione studiata in tutti i particolari per togliere di mezzo e scongiurare (invano) uno scandalo.