Chissà se Massimo D’Azeglio, che fu presidente del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna, pronunciando la famosa frase “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”, aveva in mente, nel “fare gli italiani”, di fare la loro carta d’identità. In effetti, il D’Azeglio si diede un gran daffare, ma quell’affare non andò certo in porto, e nemmeno – a quanto ci risulta – andò in passaporto.
In Italia le origini della Carta di identità si possono far risalire solo al 1931. Non è che in precedenza non siano mancati dei tentativi, il fatto è che nel nostro Paese la parola “anagrafe” – come tutti noi sappiamo per esperienza diretta – ha sempre fatto rima con attesa, coda, ritardo, rinvio. Così per disciplinare la materia abbiamo dovuto attendere l’articolo 3 del “Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza” (il famosissimo T.U.L.P.S.) come modificato e integrato dalla notissima legge 224/63, dal celeberrimo Dpr 1656/65 e dalla memorabile legge 191/98 (meglio conosciuta ai più come “Bassanini ter”, dove “ter” sta ovviamente per “tergiversare”, suffisso che caratterizza tutte le norme dedicate alla Pubblica amministrazione).
Pensate alla Carta d’Identità Elettronica (C.I.E.). Se ne parla dal 1994, qualche esperimento qua e là è stato fatto, il decreto legge del 23 dicembre 2015 (in un articolo che avrà senz’altro un comma “ter”) prevede che la Carta d’Identità Elettronica sostituirà progressivamente la “vecchia” carta d’identità cartacea, ma per ora la C.I.E. resta solo sulla carta e si conferma assai virtuale, nel senso che nella realtà non se ne rintracciano copie. Tutta colpa, forse, del fatto che a disciplinarne il funzionamento è il poco noto P.U.L.P.S. (“Programma Ufficiale per le Lungaggini della Pubblica Sicurezza”)?
Ma un tempo come facevano a vivere senza un documento di riconoscimento? Come riuscivano, cioè, a individuare l’identità di una persona, tenuto conto che una persona può essere individuata con certezza solo attraverso il suo nome, cognome, seguito dal luogo e dalla data di nascita e attraverso il riconoscimento della sua paternità e maternità?
Domande che già il cavalier Achille Polpetta (Napoli, 1808-1889), cittadino del Regno delle Due Sicilie (perciò un Borbone), si pose in un tempo dove le carte d’identità erano solo virtuali. Vigevano (dal verbo “vigere”; la città vicino a Pavia, con una delle più belle piazze del mondo, non c’entra nulla) al massimo i cosiddetti “documenti di pubblico riconoscimento”.
Ebbene, cosa escogitò il Polpetta, impasto di genio e sregolatezza? Pittore ritrattista di buona mano, partenopeo dalla mente fertile, ebbe l’idea che poi fu acquisita dalle moderne carte d’identità: ritrarre, cioè, accanto alle generalità dell’interessato, un inconfondibile ritratto del titolare del documento, che potesse fugare qualsiasi dubbio.
La proposta piacque molto all’italiano Camillo Cavour, al quale il napoletano Polpetta illustrò il documento sin nei dettagli, regalandogliene una copia, con ritratto annesso. A tal proposito, alcune fonti citano un simpatico aneddoto. Essendo il Polpetta duro d’orecchi, nel momento in cui Cavour gli scandì le sue generalità, l’Achille non capì bene, ma lì per lì, colto dalla vergogna, non disse nulla. Questo spiegherebbe il motivo per cui il documento, conservato ancora intatto nel museo di Collemarino al Monte (provincia di Napoli) alla voce “generalità”, riporta la dicitura “Camillo, penso conte di Cavour”.
Anni dopo, il figlio di Achille, Raffaello Polpetta, tentò di proseguire l’opera del padre, aggiungendovi un tocco d’artista. Appassionato di pittura, scultura e letteratura, propose l’istituzione di una Carta d’identità monumentale, a suo dire destinata a essere indelebile e perenne. In cosa consisteva? Il riconoscimento del volto era demandato a un marmoreo bassorilievo, raffigurante il viso, che ciascun nobile italiano (la plebe non meritava ancora di essere identificata) avrebbe dovuto portare con sé. E i dati anagrafici? Incisi, a mo’ di lapide, sul fronte e retro del bassorilievo. Il progetto fu bocciato non molte settimane dopo, allorquando un funzionario dell’Anagrafe di Napoli fece causa allo Stato italiano, perché nell’esercizio delle sue funzioni (trasporto e consegna dei primi documenti d’identità in formato lapideo) venne colpito dal classico colpo della strega, prodromo di una dolorosissima ernia al disco.
Polpetta jr. non si arrese e propose la Carta d’identità illustrata. Sfruttando sempre le proprie abilità letterarie e pittoriche, propose di dipingere il volto di ciascun italiano, vergando in terzine dantesche i suoi dati anagrafici. Ne sarebbe scaturita una carta d’identità da sfogliare come un libro miniato e che per tal motivo, pur non essendo mai stata realizzata, prese il nome di “Polpettone”. Ma l’intuizione iniziale risultò indigesta soprattutto al Polpetta stesso, che perì in un misterioso incidente nella sua cucina di casa. Qualcuno parlò di vendetta del funzionario dell’Anagrafe di Napoli, che si vide respinta la domanda per la pensione di invalidità, non essendo riuscito ad allegare al modulo di richiesta una copia conforme del bassorilievo marmoreo. Un solo indizio – un piatto con pochi avanzi di carne trita – non bastò a inchiodarlo. Ma proprio la dinamica della definitiva dipartita del Polpetta jr suggerì ai più maliziosi il modo di dire, ancora oggi assai diffuso, di “polpetta avvelenata”.