Nel film La zona d’ombra, Bennet Omalu è un immigrato nigeriano in attesa di ottenere cittadinanza americana. Esperto neuropatologo, impegnato in un obitorio nello studio delle cause di morte poco chiare, Bennet scopre una strana degenerazione nel cervello di un atleta di football americano. Nonostante il sistema gli si rivolti contro, per non mettere a rischio uno degli sport più amati dagli americani, Bennet andrà avanti con le sue ricerche, sostenuto dal capo e osteggiato dai colleghi, per cercare di dimostrare scientificamente l’esistenza della Cte, encefalopatia cronica traumatica. Dio, da quanto emerge, “non ci ha creato perché giocassimo a football americano”.
Ecco una storia vera. Incredibile. Per lo più sconosciuta, almeno in Italia. Il football, lo sport nazionale americano, mette a rischio la salute dei suoi atleti, che usano la loro testa come un’arma e per questo soffriranno, prima o poi, con maggiore o minore probabilità, di disturbi cognitivi, che fino a poco tempo fa erano catalogati come Alzheimer precoce. Ed ecco uno dei più grandi valori del cinema americano: raccontare storie, costruire eroi, servire la patria.
Peter Landesman si accomoda volentieri nel gruppo dei registi di sistema. Quei registi che non brillano (almeno per il momento), ma che rivelano una grande padronanza del mezzo cinematografico e che sanno raccontare quello che l’America vuole e che vuole anche lo spettatore. Sei sei americano conosci il male, la corruzione, la lotta per il potere. Ma se sei americano sai anche che trionferà il bene, la verità, la giustizia. Forse trionferà solo nei film. Ma poco importa. Sapere che tutto questo può accadere è rassicurante e gratificante per lo spettatore. È funzionale al “sentiment” nazionale e permette di proporre e riproporre e riproporre e riproporre un modello pubblico, attorno al quale raccogliere un sogno.
L’America cinematografica è un mondo di supereroi della vita, che affiancano i supereroi dell’immaginazione, che affiancano il nostro grande bisogno di pace e serenità. E Bennet Omalu è uno di questi eroi. Ben interpretato da Will Smith, l’umile e tenace medico è tratteggiato come un uomo di fede, puro, ingenuo, corretto, coraggioso, ai limiti della credibilità. Egli è uno scienziato della morte, incaricato di ascoltare i segnali del corpo senza vita, senza accontentarsi delle spiegazioni di comodo. Ed è così che un discreto e silenzioso immigrato nigeriano, in cerca di passaporto americano, inizia senza alcun buonsenso una guerra contro la Nfl, federazione sportiva del football americano, padrona di un giorno della settimana statunitense. Ma l’America ti chiede questo: “Devi essere il miglior te stesso se sei in America”. Ed è tutto sommato una buona ricetta, facile, comprensibile e motivante per un intero popolo. Se dai il meglio ti può anche capitare di diventare un eroe… Indovinate come andrà a finire?
È tutto scritto nelle pagine di storia, vera, che il film racconta. Anche se, lo si sa, il vero cinematografico è verosimile romanzo con sprazzi di realtà. Sui numeri però non si discute: 5.000 cause intentate nel 2011 contro alla Nfl, che patteggiò, e il 28% di atleti che soffrirà di disturbi cognitivi precoci. Numeri peraltro che non sembrano aver spaventato gli sportivi americani, tuttora invasati di football.
Il film è un compitino ben eseguito, facile e dimostrativo, capace di raccogliere anche una generosa candidatura di Will Smith, come miglior attore protagonista, ai Golden Globe. Cinema d’intrattenimento.