C’è un posto in Giappone, ai piedi del monte Fuji, dove arrivano persone da tutto il mondo con un unico obiettivo: togliersi la vita. È una foresta fitta e misteriosa, disseminata di cadaveri e popolata da strane presenze. Se qualcuno non è convinto, lascia dei nastri grazie ai quali poter ritrovare la via del ritorno, in caso di ripensamento. Ammesso che la foresta permetta loro di andarsene.



Nel nuovo film di Gus Van Sant, La foresta dei sogni, l’americano Arthur Brennan (Matthew McConaughey), professore di fisica, sbarca in Giappone senza bagagli, con una scatoletta di pillole e una bottiglietta d’acqua, e si inoltra nella foresta di Aokigahara con l’intento di uccidersi. Ha perso la moglie (Naomi Watts) in modo tragico ed è tormentato dai sensi di colpa, perché il loro matrimonio era in crisi da tempo: nonostante l’amore, i due non facevano che accusarsi e ferirsi a vicenda. E ora è tardi per rimediare. 



Il suo tentativo di farla finita è disturbato però dalla comparsa di un uomo, Takumi Nakamura (Ken Watanabi), che si è perso nella foresta dopo avere cambiato idea e non riesce a ritrovare il sentiero giusto. Una chiara metafora della confusione esistenziale che l’uomo incontra quando perde la speranza e non vede una via d’uscita, ma cerca un segno, un aiuto, una nuova possibilità. In realtà, chi davvero ha smarrito la strada è Arthur che, nel confronto con Takumi, ricorda il passato ed elabora il lutto, fino a ritornare alla vita. 

Il viaggio dei due uomini attraverso la foresta è una lotta per la sopravvivenza. Pensano al suicidio, ma combattono per restare vivi, nonostante le ferite, la pioggia, le cadute, il freddo. Intanto parlano di filosofia, di religione, di sentimenti: perché feriamo le persone che amiamo? Perché non ci prendiamo cura dei nostri rapporti, per poi pentirci quando è ormai tardi? Forse perché siamo esseri umani, sbagliamo in continuazione, e l’unico vero filo di Arianna per uscire dal labirinto della disperazione è il perdono. Perdonare gli altri, ma soprattutto se stessi, diventa la chiave per la redenzione e la rinascita. 



Nonostante la forza del tema e del messaggio, ci sono molti aspetti del film che disturbano e disorientano. Le allusioni alla reincarnazione, con la costruzione del mistero di Takumi che rappresenta in realtà la moglie perduta, fanno crollare le aspettative che l’inizio del film riesce a creare. Invece di potenziare l’aspetto spirituale, lo riducono a soluzioni già viste. Alla fine, torniamo al concetto dell’anima incastrata tra il mondo dei vivi e l’altra dimensione, che ha bisogno di risolvere le questioni rimaste in sospese (tipico dei film di fantasmi) e all’idea del rimpianto tardivo. 

Se l’inizio colpisce per il taglio quasi documentaristico con cui si presenta ciò che accade ai piedi del monte Fuji, la deriva verso il dramma familiare e le soluzioni inanellate nell’ultima parte, scontate e poco credibili, rovinano il film, deludendo chi conosce il registra e apprezza lo stile minimalista e incisivo che qui sembra scomparso.