Chi conosce J. J. Abrams (il papà della serie tv “Lost”, per intenderci) saprà che, oltre ad avere un occhio registico niente male, è anche un produttore con il pallino per i film di fantascienza. Venendo dal mondo dei serial televisivi Abrams sa benissimo come spingere un prodotto sul mercato, giocando con le aspettative e le attese del pubblico; è per questo motivo che, dopo aver prodotto nel 2008 Cloverfield, interessante found-footage in prima persona su un mostro che devasta Manhattan, a distanza di otto anni decide di continuare il franchise di Cloverfield con questo 10 Cloverfield Lane.
Il film, diretto dall’esordiente Dan Trachtenberg, può benissimo essere visto come pellicola a sé, slegato da Cloverfield con cui condivide solamente l’idea di fondo e lo spunto fantascientifico. Per il resto ci troviamo di fronte a un thriller psicologico fatto e finito, con la protagonista Michelle (Mary Elizabeth Winstead) trasportata in un bunker sotterraneo in seguito a un incidente d’auto. Stando al suo carceriere e “salvatore”, Howard (John Goodman), la superficie è stata rasa al suolo da una razza aliena che, dopo aver reso l’aria altamente infetta, sta dando la caccia agli esseri umani superstiti. Vero o meno, Michelle si ritrova improvvisamente prigioniera insieme a Emmet (John Gallagher Jr.), insieme al quale cercherà una via di fuga.
A differenza del “consanguineo” Cloverfield, girato su larga scala e in prima persona, qui gran parte dell’azione si svolge tra le quattro pareti del bunker sotterraneo, con una regia sempre pulita e in terza persona. Anche gli attori sono ridotti al minimo: tre quelli principali, a cui si aggiungono solo un paio di comparse. Se il clima da “fine del mondo” è tipico e caratterizzante del franchise, qui l’atmosfera è più vicina a un L’alba dei morti viventi che non a un Godzilla.
A dominare la scena è sicuramente il pingue carceriere interpretato da Goodman. La sua paranoia da complottista incompreso ce lo rende vulnerabile, fragile, sensazione subito soffocata dai suoi modi bruschi e imprevedibili. È una bomba pronta a scoppiare, e lo spettatore, così come la protagonista, oscilla costantemente tra compassione e ribrezzo, sprazzi di fiducia e volontà di fuga, in un’escalation di indizi e conferme che regge senza forzature fino alla sequenza finale. Nell’ultima parte esplode il sotto-testo fantascientifico che era rimasto in secondo piano per tutto il film, e, se si esclude qualche ingenuità nella risoluzione finale, il cambio di tono funziona egregiamente, oltre a rendere palese la parentela con il film del 2008.
Come ogni film ambientato in spazi ristretti, dal già citato film di Romero a Carnage, anche qui è fondamentale che si crei empatia con i personaggi e con le loro storie pregresse. Michelle è una donna in fuga da una relazione complicata, incapace di affrontare le difficoltà della vita; Emmet ha rinunciato a un futuro lontano dal suo luogo natale per paura del distacco. Sono entrambi personaggi sconfitti, incapaci di reagire; per loro l’apocalisse (o presunta tale) è anche un pretesto per riflettere su se stessi, e riuscire a guadagnarsi quel riscatto di cui sentono il bisogno.