Gomorra – La serie, in onda queste settimane su Sky Atlantic il martedì sera, è qualcosa di più di un successo televisivo. Di più, anche, di un “cosiddetto” evento mediatico. La sceneggiatura di questa fiction entra a pieno titolo in un innovativo contesto “evolutivo” della narrazione. Gomorra, ritengo, sia una vera e propria lezione universitaria di sociologia.



Premetto che è “mestiere”, nella pianificazione produttiva di una fiction televisiva, “diluire”, attraverso la scrittura in primis e la regia che ne segue, tempi recitativi e dinamiche recitative, canovacci emotivi quasi sempre ridondanti e prolissi per esigere, quasi sempre, tanto “fumo”e discreta “carne al fuoco” per giustificare budget minimi che però garantiscono lunghe coperture serali di messa in onda. In Gomorra tutto viene ribaltato.



I budget di Gomorra sono alti, indubbiamente sostanziosi. Ma alti, anzi altissimi, sono stati gli introiti della prima serie del format, venduto in più di 113 paesi nel mondo. La qualità, si direbbe banalmente, paga. Ma in un mercato nazionale e ancor più mondiale dove l’offerta è molteplice e globale, la qualità dove si insinua davvero in un’analisi più attenta?

Gomorra è un laboratorio riuscitissimo nel tentativo di comunicare il sociale al netto di strategie di marketing e vendite costruite a tavolino. Nell’era della comunicazione globale, dove a un livello di altissima disponibilità tecnologica fa da contraltare un’assuefazione ridondante di contenuti e parole, Gomorra colpisce perché toglie, asciuga, porta all’essenziale i dialoghi strettamente dialettali, le dinamiche dei protagonisti, le inquadrature, sublimando la condivisione comunicativa con grandissimo equilibrio attraverso silenzi, pause, semplici sguardi, frasi minime ma concentratissime di devastanti stati d’animo.



Alla scrittura si aggiunge, in un perfetto incastro, regia e fotografia che sinergicamente, già da sole, (provate a togliere l’audio del televisore) consegnano allo spettatore di Gomorra, lontano da quel vissuto, potenti “luoghi d’animo”, facendolo entrare percettivamente in simbiosi con la teatralità del dramma in atto, sempre meno costruito, sempre più impastato col reale.

Ecco perché Gomorra supera la semplicistica omologazione di format televisivo, proponendosi come esperimento antropologico in cui il lettore, se attento, coglierà non solo la narrazione delle vicende, ma dinamiche, regole, dogmi e quant’altro costituisce la sub società narrata: la criminalità partenopea. Una realtà che di fatto affascina solo se… vista da fuori…

Infatti, la trasversalità della proposta narrativa di Gomorra non pone neanche un solo “eroe” sull’altare sacrificale dei seguaci telefidelizzati di questo successo del martedì sera. Tutti sono vittime e carnefici. Tutti, nessuno escluso. La contrapposizione è evidente e calza in tal senso, rispetto a un altro “must” storico-narrativo di società mafiosa come il Padrino di Francis Ford Coppola. 

Mitizzati e mitizzanti i film sulla mafia degli anni ’70, i personaggi in Gomorra colpiscono e stordiscono come pugni nello stomaco invece per la loro angosciosa quotidianità fredda e crudele, vincolata dalle paure di sopravvivenza, nel guardarsi sempre alle spalle e non essere, anche per i boss, mai sicuri fino in fondo della loro forza e onnipotenza. Il contesto sociologico è l’unico vero fulcro che detta e stabilisce tutto ciò che accade e si muove.

Guardare Gomorra, specie per un italiano, significa andare a comprendere un po’ oltre la solita astina promossa in tv di realtà presenti e radicate nel nostro Paese. Oltre i notiziari, approfondimenti di cronaca, i format scritti da chi non ha vissuto “dentro” ciò che racconta. Guardare Gomorra significa, mai come oggi, sollecitare sensibilità e consapevolezze nuove, dove autori e regista “obbligano fastidiosamente” il pubblico a stare davanti a una visione essenzialmente sociologica dei drammi in atto. 

In questa bellissima e precursoria espressione televisiva, il testo della canzone, che fa da chiusura alle puntate, diventa il totem esistenziale che attraversa tutte le puntate. Un rapper napoletano ripete ossessivamente con una lettura quasi tantrica un ritornello che dice: Nuje vulimme na speranza pe campà. La speranza di una gioventù locale bruciata sin dalla sua adolescenza. Una speranza consapevole che questo Paese da sempre cerca, ma disperde nella sua proverbiale e inconcludente distrazione.

Gomorra attira con fastidiosa attenzione questa atavica e tipicamente italica distrazione, perché in fondo specchio… di realtà che non vogliamo credere esistino.