Pur essendo ambientato principalmente entro i confini di una casa, il film di Shirel Amitay (La casa delle estati lontane) riesce a portarci in un altro mondo. All’inizio della storia seguiamo Cali (Géraldine Nakache), giovane franco-israeliana, che arriva in treno nella cittadina di Athil, Israele, e nel giardino della sua casa d’infanzia vicino alla ferrovia, con gli ulivi e la buganvillea fucsia che si arrampica sui muri bianchi. Sentiamo il calore del sole, l’apparente tranquillità di un luogo in cui tutto sembra normale.
Qui Cali ritrova le sue sorelle, Darel (Yaël Abecassis) e Asia (Judith Chemla), riunite per vendere la proprietà ereditata dai genitori. Darel, la maggiore, vive in Canada, ma sente forte il legame con la sua terra d’origine, mentre Asia è attratta dalle discipline orientali e vorrebbe fare uno stage in India. Ognuna di loro ha motivi diversi per amare e odiare il luogo in cui sono cresciute, ma i ricordi del passato diventano insistenti quando le sorelle cominciano a vedere i “fantasmi” dei genitori, tutt’altro che spaventosi, che le aiutano a riparare il sistema elettrico e dispensano consigli.
Le loro discussioni sulla vendita della casa si alternano con le notizie sul processo di pace in atto nel Paese. Siamo nel 1995 e sembra possibile vivere in una nazione senza guerra, cominciare una nuova vita e non essere costretti a fuggire. Il 4 novembre, però, l’illusione è spezzata e l’ombra del conflitto oscura il sole. Eppure, la situazione politica risveglia nelle sorelle l’attaccamento nei confronti della casa e dei ricordi che conserva, di tutto ciò che rappresenta.
La casa delle estati lontane è un film sull’importanza dei legami e sulla ricerca della pace, che si declina su tre livelli: la pace con se stessi, all’interno della famiglia, nella nazione. A un certo punto, Cali incontra nel giardino un bambino palestinese, una delle presenze invisibili del film (la meno riuscita, a dire il vero): entro i confini di quella casa, la pace è possibile. La coesistenza di visibile e invisibile rappresenta la duplice realtà della vita umana, fatta di eventi e “presenze”, ma anche di ricordi e di “assenze”. La questione politica e la vendita della proprietà corrono parallele e si rispecchiano nel personaggio di Cali, la sorella di mezzo, arrivata con l’intenzione di vendere a tutti i costi perché in quel Paese – e in quella famiglia -non è mai stata bene. Ma si sfoga curando il giardino, e il giardino significa radici, natura che muore e rinasce, appartenenza. I colori, la luce, l’arredamento di sapore francese, la grazia e l’espressività delle attrici contribuiscono a tenerci “dentro” al film anche nei momenti in cui il ritmo è lento, perché ci muoviamo tra le stanze insieme alle protagoniste e impariamo a decifrare i loro sentimenti, i loro sogni e i loro problemi.
Anche se i dialoghi hanno un ruolo importante, sono le immagini a dominare. Si vede nella scena in cui le sorelle sentono alla radio la notizia dell’uccisione di Rabin, uno dei momenti più forti del film. Ma se la situazione politica precipita, la famiglia sembra infine riunita. La casa diventa così un angolo intoccabile e quasi separato dal mondo, in contrasto con l’esterno dove passano gli aerei militari e avvengono comizi e attentati. Perché, sembra suggerire la regista, bisogna costruire prima di tutto la pace nel proprio ambiente familiare, affrontare le paure e superare i rancori per andare avanti.