Pare che i cellulari siano ormai onnipresenti, con un’utenza pari all’80% della popolazione mondiale. Il loro utilizzo, lungi dall’essere saltuario, diventa sempre più parte delle nostre vite; la connessione alla rete, poi, è una parte essenziale della nostra quotidianità, un modo per rimanere sempre aggiornati, 24/24 ore. Uno scenario simile, al tempo stesso allettante e incredibilmente inquietante, non può non scatenare la fantasia di schiere di scrittori, tra i quali non può mancare il prolificissimo Stephen King, dal cui romanzo del 2006 “Cell” è tratto l’omonimo film diretto da Tod Williams.
Il film si apre in un aeroporto affollato, dove facciamo la conoscenza di Clayton Riddel (John Cusack), autore di graphic novels in visita al figlio e alla ex moglie. A un tratto, inspiegabilmente, dai cellulari iniziano a fuoriuscire delle frequenze che trasformano gli utenti in zombie sanguinari. I pochi risparmiati – oltre a Clay un macchinista, Thomas (Samuel L. Jackson) e la giovane Alice (Isabelle Fuhrman) – cercano così di sopravvivere in un mondo post-apocalittico, alla ricerca di altri superstiti e, nel caso di Clayton, di notizie sulla propria famiglia.
Reduce dal mediocre Paranormal Activity 2, Tod Williams può essere definito un regista senza infamia e senza lode, ma questo Cell minaccia di segnare il punto più basso della sua (pur breve) filmografia. E questo nonostante un’idea di partenza buona, benché poco originale, e un cast di tutto rispetto. Cosa non va, quindi, in questo ennesimo adattamento da Stephen King?
La recitazione, innanzitutto. Con a disposizione attori di così alto livello – Samuel L. Jackson non ha bisogno di presentazioni, mentre la Fuhrman ha ricevuto il plauso unanime della critica per aver interpretato Esther nell’horror del 2009 Orphan – dispiace vedere come i ruoli a loro assegnati siano fiacchi, sottotono. Chi, al solo sentire il nome di Samuel L. Jackson, si aspetta una performance anche solo lontanamente paragonabile a quella di The Hateful Eight (ma anche di Pulp Fiction, Django Unchained, ecc.) rimarrà deluso: il suo personaggio è piatto, dimenticabile più per deficienze di scrittura che per colpa propria.
Ma la vera nota dolente del film è un’altra, ed è, purtroppo, la trama. Nonostante King stesso si sia occupato dell’adattamento cinematografico, la sceneggiatura di Cell parte bene e si infrange presto sugli scogli dell’incoerenza, del ritmo letargico e dell’incomprensibilità. Il gruppo protagonista vaga da un incontro con dei sopravvissuti all’altro senza un effettivo schema logico, senza che lo spettatore abbia il tempo di affezionarsi a chicchessia.
Il mistero dietro all’improvvisa pandemia digitale si infittisce minuto dopo minuto, e gli indizi si susseguono senza che, ahimè, il finale riesca a sbrogliare la matassa. Gli ultimi minuti sono quelli in cui le parti oscure del film dovrebbero schiudersi come un libro aperto, e invece, a proiezione finita, si rimane con un enorme punto interrogativo in testa, colpa di un finale confuso, sbrigativo e inconcludente.