È italiano il secondo appuntamento della nostra rassegna estiva: dopo La Casa, dall’altra parte dell’oceano un altro horror detta le linee guida per i futuri sviluppi del genere, ormai prossimo a un radicale cambiamento. “L’aldilà” di Lucio Fulci è un caleidoscopio infernale di trovate originali, anarchia visiva e vero orrore, degno capolavoro di un regista non a torto definito “terrorista dei generi”. 



Nel panorama cinematografico italiano Lucio Fulci è stato una delle figure più curiose ed eclettiche. Dopo aver iniziato girando commedie, genere che non ha mai del tutto abbandonato, negli anni ’70 Fulci si dà al giallo/thriller, cavalcando sì l’ondata di entusiasmo post Dario Argento, ma lo fa con uno stile personalissimo ed estremo che gli vale capolavori come Non si sevizia un paperino -giallo lucano e decisamente macabro – e più o meno riuscite ibridazioni fra il thriller e l’horror. 



Nell’81 Fulci aveva già inaugurato la cosiddetta “Trilogia della morte” con Paura nella città dei morti viventi, uscito l’anno prima, ma è con …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà (riedito semplicemente come L’aldilà) che il regista romano si impone nella storia del cinema di genere con una pellicola coraggiosa, sperimentale, impattante nella misura in cui scardina ogni certezza preventiva dello spettatore. 

Innanzitutto la trama. Parlare della trama de L’aldilà è come cercare di descrivere un puzzle incompiuto e cangiante. La premessa su cui si basa, però, è semplice: Liza Merril (Catriona MacColl), giovane newyorkese, eredita l’hotel Sette Porte, senza però sapere che proprio in quel luogo, mezzo secolo prima, è stato compiuto un orrendo delitto: un pittore sospettato di stregoneria fu massacrato, crocefisso e murato vivo in cantina. A questo orribile fatto se ne aggiunge un altro, se possibile ancora più inquietante: come si scoprirà poi, il Sette Porte è stato costruito su una delle porte che conducono all’Inferno, divenendo un vero e proprio varco tra la nostra realtà e quella infera. Grazie all’aiuto di Emily (Cinzia Monreale) e del dottor John McCabe (David Warbeck), Liza proverà a sfuggire dall’incubo in cui, inconsapevolmente e inevitabilmente, si è gettata. 



Queste semplici premesse si traducono però in un film dall’andamento totalmente anarchico, surreale, imprevedibile. Similmente a quanto accade in Inferno di Argento, uscito un anno prima, l’apertura del varco infernale sovverte le regole spazio-temporali, facendo saltare ogni nesso logico tra un’azione e l’altra. Ecco che quindi è possibile, come in un cartone animato, che i protagonisti aprano una porta in un ospedale e si ritrovino, magicamente (o diabolicamente), in uno scantinato umido e gocciolante, o in una landa desolata uscita dalla mente di un pittore folle. 

A rendere più forte la sensazione di spaesamento contribuisce la componente splatter del film, che Fulci esaspera con effetti ora tragicomici (il sangue dall’irreale color fragola che si spande sul pavimento dell’ospedale) ora fortemente drammatici, come l’aggressione alla donna cieca che cita il Dario Argento di Suspiria. Molte sono le sequenze passate alla storia, basti pensare all’accecamento che sarà poi evocato da Tarantino nel suo Kill Bill; il motivo di tanta iconicità risiede sicuramente nel modo in cui Fulci esorcizza la morte, unendo una visione pesantemente pessimistica – “non c’è scampo dall’Inferno”, sembra dire Fulci al termine del diabolico zigzagare qua e là dei protagonisti – a un gusto per l’eccesso tipico della sua generazione di registi.