Il 6 luglio del 1994 usciva nelle sale americane un film che era destinato a entrare nella storia del cinema: Forrest Gump. La pellicola ottenne innumerevoli premi tra cui l’Oscar al regista Robert Zemeckis e al protagonista Tom Hanks. Tutt’ora è considerato tra i 100 film che hanno fatto la storia del cinema ed è tra i 100 che hanno avuto maggior successo al botteghino.



La storia del ragazzo dell’Alabama che da semplice studentello con un quoziente intellettivo al di sotto della media riesce a frequentare un’università con la borsa di studio, a combattere in Vietnam ottenendo anche una medaglia al valore e infine diventare miliardario, ha quindi fatto il giro del mondo. Nonostante tutto è grossa la fetta di intellettuali che allora come oggi attaccano il protagonista apostrofandolo come bamboccio o semplice burattino della madre, difendendo a spada tratta la figura della bella Jenny che per tutta la storia fa scelte libere e controtendenza. Proviamo a capire bene però i termini di questo contrasto. 



È indubbio infatti che la madre di Forrest sia la protagonista del film, infatti le sue parole vengono ripetute in continuazione dal figlio, ma vengono usate come veri e propri criteri di scelta nei punti nodali del film. Quelle stesse frasi che sono diventate celebri, come il noto “stupido è chi lo stupido fa” non sono quindi dei simpatici aforismi, ma vere e proprie cartine tornasole per giudicare ciò che accade e buttarsi in imprese che sembrano disperate, come quella di entrare nel commercio dei gamberi.

Vediamo dunque che Forrest “rende vivi” gli insegnamenti materni e mostra con la sua vita i frutti di bene che possono portare. Sempre seguendo i frutti possiamo vedere come in realtà la vita di Jenny, bella e ribelle, sia stata in fondo un susseguirsi di delusioni e sconfitte, in cui solo Forrest riesce a vedere e a valorizzare il desidero buono che era alla base di ogni suo tentativo. Commovente in tal senso la scena all’interno del pub dove Jenny canta la celebre canzone di Dylan “Blowin’ in the Wild”.



Jenny per tutto il film non fa altro che fuggire, tentare di trovare una diversa via, una qualunque che non sia quella di abbracciare Forrest che da quando era ragazzo ne è perdutamente innamorato. Da una parte un uomo che dice sempre sì alla vita e dall’altra una donna che in fondo dice sempre no. Una notte però anche Jenny cede e “accoglie” l’amore di Forrest passando con lui una notte. La mattina dopo sappiamo che fuggirà in taxi.

Da quell’unico e semplice “sì”, da quel farsi abbracciare dal suo innamorato nascerà poi un figlio (da notare che sarà un ragazzo con un q.i. alto) come a testimoniare che l’unica volta che Jenny è stata di fronte a ciò che accadeva è nato qualcosa di buono e bello. Come tutti sanno Jenny morirà a causa di una malattia, ma la sua storia continua grazie alla presenza del suo figlioletto e di suo marito che rimane fedele per tutta la storia al suo ideale di una vita al suo servizio, dando una grande testimonianza che non c’è amore senza responsabilità verso l’amata.

Quel ragazzo considerato da tutti come poco sveglio si dimostra quindi all’altezza di un grande amore, anche se travagliato. Lui stesso dirà a Jenny: “Non sono molto intelligente, ma so cos’è l’amore”. E dentro questa splendida frase, che è originale e non della madre, c’è anche un ultimo insegnamento per gli intellettuali critici del film: per gli aspetti essenziali della vita, come l’amore, Dio ha dato a tutti le capacità per riconoscerli, per entrare nel mistero della verità di quella cosa. In modo opposto c’è una presunta intelligenza che non riesce a scalfire l’apparenza e a non emozionarsi di fronte a una ragazza che tenta di diventare cantante suonando in un losco pub. Ma questa non è vera intelligenza, ma semplice cinismo. L’intelligenza, quella vera, si matura imparando ad avere occhi che conoscano lo stupore, obbedendo a chi educa a quello sguardo. 

Sorge così spontanea la domanda che Forrest sembra fare a noi spettatori della sua vita: “Perché lamentarsi se è così semplice ubbidire?”.