Il festival del film di Locarno può sembrare un festival come gli altri. Assieme a quello di Cannes è uno dei due festival internazionali di cinema più longevi (sono entrambi del 1946), battuti solo dalla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, la cui prima edizione risale al 1932, ma è strutturato come la maggior parte dei festival più importanti: una sezione competitiva per lungometraggi di ogni genere (“Concorso internazionale”); una sezione parallela a quella principale (“Cineasti del presente” di opere prime e seconde); un concorso per i cortometraggi (“Pardi di domani”); una sezione dedicata a film restaurati, omaggi e documentari sul cinema (“Histoire(s) du cinéma”); una sezione fuori concorso dedicata a opere di registi di rilievo e comunque interessanti (“Fuori concorso”); una sezione dedicata alla ricerca di nuove forme narrative e di linguaggi innovativi (“Signs of life”); una retrospettiva (“Amato è rifiutato: il cinema della giovane Repubblica federale tedesca dal 1949 al 1963″); una sezione dedicata alla filmografia dei membri delle varie giurie (“Film delle giurie”); uno spazio per incontri, spesso purtroppo definiti impropriamente masterclass, con autori, attori, personalità del cinema in genere e premiazioni degli stessi (“Forum-Conversazioni con …”); almeno due sezioni indipendenti (“Semaine de la critique”, dedicata al cinema documentario, e “Panorama suisse”, dedicata al cinema svizzero). La struttura, quindi, del menù del festival di Locarno non è diversa da quella degli altri, ma cambiano i contenuti e la visione di cinema.
“Cinema che legge la realtà e la trasfigura – come ha dichiarato il critico italiano Carlo Chatrian, direttore artistico della manifestazione, presentando il festival -. Cinema che non ha paura di pensarsi grande anche quando affronta le storie dei piccoli, che esplora tutte le tonalità, che arriva come un soffio di vento e ti porta via con sé”. Non si tratta di retorica. È veramente difficile trovare un festival internazionale dove, sulle 279 opere selezionate (98 cortometraggi, 181 lungometraggi, tra i quali 20 opere prime), il programma preveda 6 film del Bangladesh, 4 del Buthan, 5 del Nepal, 4 del Qatar e poi egiziani, kazaki, malesi, indonesiani, bosniaci, serbi, montenegrini, siriani, georgiani, indiani, laotiani e così via per più della metà dell’intera selezione.
La visione di Locarno è quella di un festival che rappresenta veramente la realtà del cinema internazionale senza una prevalenza del cinema occidentale o anglosassone. Certo ci sono film americani, francesi, italiani, inglesi o cinesi, ma non sono i soliti film americani, francesi, italiani, inglesi o cinesi. Ci sono 57 film di nazionalità francese, ma perché la Francia coproduce da anni con tutto il mondo. Questa visione del cinema mondiale, presente in tutto il programma, è ben rappresentata dalla sezione “Open doors“, che per tre anni di seguito vede il festival impegnarsi per far conoscere aree cinematografiche attive ma che sono, di fatto, invisibili. Per capirne l’importanza, si pensi che questa è, praticamente, l’unica sezione che frequentano gli amici locarnesi che hanno procurato un alloggio a chi scrive.
Attualmente l’area d’interesse di “Open doors” è il cinema dell’Asia del sud, l’area più popolata del pianeta (3,8 miliardi di esseri umani) e, forse, la meno conosciuta. La particolare visione del cinema a Locarno è confermata anche dagli splendidi manifesti di quest’anno, che hanno come protagonisti non le solite star, ma i volti, elaborati graficamente, dei “pardi“, i frequentatori del festival, fotografati durante l’edizione dello scorso anno. Il “Pardo”, per chi non lo sapesse, è l’animale feticcio del festival ed è anche il nome dei premi assegnati. A disposizione del pubblico ci sono 8 sale per un totale di 5.363 posti coperti oltre a quelli della Piazza Grande. Proprio perché il festival crede in un pubblico capace di apprezzare un cinema diverso e internazionale, la sezione più caratteristica di Locarno è, infatti, proprio “Piazza Grande”. La Piazza grande, con il suo schermo gigante di metri 26×14, con la sua platea di sedie gialle, che creano l’illusione di un immenso campo di tulipani, in grado di accogliere fino a 8.000 spettatori, è già da sola uno spettacolo che merita una sosta anche di un solo giorno a Locarno.
Lì i “pardi” si affollano ogni sera per vedere non solo film di intrattenimento come Lo chiamavano Trinità (nel pre-festival per ricordare Bud Spencer), il film di zombie ma esistenzialista The Girl with All the Gifts (film di apertura) o il blockbuster, tutto sparatorie ed inseguimenti, Jason Bourne, ma anche il vincitore di Cannes, I, Daniel Blake di Ken Loach, il raffinato Stefan Zweig: Farewell to Europe, che racconta l’esilio dello scrittore austriaco in America, conclusosi tragicamente in Brasile, il thriller sovrannaturale malese-indonesiano Interchange o il kolossal Mohenjo Daro, ambientato nella sconosciuta omonima civiltà scoperta negli anni 20 del secolo scorso, di Ashutosh Gowariker, regista di Lagaan, uno dei pochi film indiani distribuiti commercialmente nel mondo e lanciato, a suo tempo, da Locarno.
Il concorso internazionale vede in gara 17 film. L’italiana Tizza Covi e l’austriaco Rainer Frimmel dirigono Mister Universo, viaggio in Italia di un giovane domatore di leoni tra i piccoli circhi, alla ricerca di un mister muscolo che ha regalato al domatore, quand’era bambino, un ferro piegato con la sola forza delle mani che qualcuno gli ha rubato. Chi ha avuto la fortuna di vedere la loro opera prima La pivellina, che sembra la premessa di questo film, non potrà mai dimenticarsela e non si perderà Mister Universo. Indimenticabile anche l’opera prima, ormai risalente al 2000, di Joao Pedro Rodrigues, il pluricensurato O fantasma. Il regista portoghese porta a Locarno quest’anno O ornitologo, storia appunto di un ornitologo il quale, mentre cerca delle cicogne nera in via di estinzione, si perde in un bosco e caduto in un fiume al nord del Portogallo è salvato da due ragazze cinesi in cammino verso Santiago di Campostela. È solo l’inizio di una storia che cambierà per sempre il protagonista.
La biografia di un Paese, la Polonia, è raccontata da Jan Matuszynski con The last family, probabile “pardo”, dedicato all’artista surrealista Zdzislaw Beksinski, pittore famosissimo la cui massima ambizione era fare delle pitture che fotografassero i suoi sogni. Mentre condivide con la moglie una vita quotidiana piuttosto tradizionale il suo immaginario è ispirato sia da un umorismo molto l’articolare, sia dal sesso estremo e dal sadomasochismo. Il nevrotico figlio Tomasz diventa un importante dj radiofonico, che cambia il gusto musicale dei giovani polacchi, ma, forse oppresso dalla personalità del padre, muore suicida. Anche l’artista, dopo la morte della moglie, finisce tragicamente, accoltellato dal figlio di un domestico.
La Bulgaria concorre addirittura con due film, Slava (Glory) e Godless, diretti da due registe. Nel primo film, anch’esso in corsa per un probabile “pardo”, un ferroviere trova milioni in banconote sui binari e li restituisce. Lo Stato lo premia con un orologio che dopo un po’ smette di funzionare. Quando il protagonista chiede indietro il vecchio orologio che aveva lasciato, scopre che la responsabile dell’ufficio stampa del Ministero che l’aveva premiato l’ha perso e comincia una battaglia per avere indietro non il suo vecchio orologio, ma la sua dignità. Nel secondo un’infermiera assiste vecchi dementi e traffica in carte d’identità. Cinica fino all’estremo, uccide accidentalmente un paziente che voleva denunciarla. Solo l’arrivo di un nuovo paziente, per il quale proverà, finalmente, empatia sembra scuoterla, ma non senza conseguenze personali.
In Wet woman in the wind il giapponese Shiota Akihiko racconta l’incontro accidentale tra Shiori, giovane donna, che scivola in mare con la bicicletta, mentre Kosuke, drammaturgo, ritiratosi a vivere in una baracca nel bosco ai margini della società per dimenticare, passa spingendo un carretto. La donna coinvolgerà lo scontroso artista in continui giochi erotici. Il film è un divertito omaggio al genere soft-porno alla giapponese, dove ogni dieci minuti c’è un amplesso, ma sono rigorosamente vietati l’esibizione degli organi genitali e dei peli.
Tra i film del Bangladesh, in “Open doors”, è molto attuale Television, dove il capo islamico di una comunità rurale vieta ogni immagine perché peccaminosa e, persino, l’atto dell’immaginare. Di fronte alla televisione è, però, costretto ad arrendersi, anzi a scoprire che può essere un alleata per lui e per lo stesso Allah.
È basato su un’idea molto stimolante l’argentino El futuro perfecto dove la vita di una ragazza cinese cambia grazie a un modo verbale: “il condizionale”. Xiaobin, 17 anni, quando arriva in Argentina lavora in un supermercato cinese e vive come la sua famiglia in un mondo parallelo senza mai mischiarsi agli argentini. Comincia a studiare di nascosto lo spagnolo e a praticarlo. Quando impara a dare un appuntamento, rimorchia un ragazzo indiano con il quale inizia ad avere una relazione segreta. La sua vita, già rivoluzionata, diventa rivoluzionaria quando scopre il condizionale (che in cinese, a quanto pare, non esiste) e comincia a chiedersi cosa succederebbe se i suoi genitori scoprissero la sua relazione o se l’amico indiano la tradisse. Più impara la lingua più la sua vita si arricchisce, ma si complica.
Tra i film che parlano di cinema, è imperdibile Cinema, Manoel De Oliveira and me, nel quale un amico e collaboratore racconta il modo di fare cinema del maestro portoghese morto a 106 anni. Sempre di cinema si occupa I had nowhere to go , dedicato a un esiliato molto particolare, il lituano Jonas Mekas. Costretto a emigrare negli Usa, dopo l’ultima guerra, è divenuto uno dei padri dell’avanguardia americana. Con Une jeune file de 90 ans,fuori concorso, Valeria Bruni Tedeschi trova una storia non comune per parlare d’amore, quella di una malata di Alzheimer di 92 anni. Durante un laboratorio di danza, che un coreografo utilizza per risvegliare le coscienze dei malati, l’anziana signora esce dalla sua abulia, si innamora dello stesso coreografo e non è più demente, ma folle d’amore.
Fuori concorso verrà anche presentato Jean Ziegler, l’optimisme de la volonté, documentario sul sociologo e uomo politico, una specie di Marco Pannella svizzero, i cui libri sono stati tutti tutti tradotti in italiano, famoso per il suo impegno contro la fame nel mondo e per le critiche impietose al suo stesso paese.
La retrospettiva “Amato è rifiutato” dedicata al cinema della Repubblica federale tedesca dell’epoca di Adenauer, curata da Olaf Möller, uno dei più grandi esperti di cinema internazionali, e Roberto Turigliatto, responsabile di moltissime rassegne trasmesse da Fuori orario su Rai Tre, è uno dei gioielli del festival di quest’anno. In oltre 70 film e con un ricchissimo catalogo, che accompagna il programma con saggi scritti appositamente, permette l’esplorazione di un periodo cinematografico poco studiato perché considerato provinciale, ipocrita, conformista ed esteticamente arretrato. La retrospettiva dimostra, invece, che il giudizio sul quel cinema è basato su pregiudizi.
Il cinema tedesco dei grandi vecchi esiliati in America (Pabst, Lang, Siodmak), ritornati a girare in patria, e quello dei presunti collusi con il nazionalsocialismo, è invece stato un moderno testimone di un periodo storico molto particolare. Ha rappresentato, attraverso i suoi film, il tentativo di un intero Paese di essere riammesso a far parte della comunità mondiale, si è sforzato di trovare la strada per un’estetica moderna, ha analizzato e fotografato in maniera entomologica ogni tipo di relazione. Per capire l’importanza della retrospettiva si pensi che molti appassionati vengono a Locarno solo per assistere alle sei proiezioni giornaliere della rassegna, che avrà una circuitazione in Europa, ma, purtroppo, non in Italia. I film imperdibili sono quelli dei tre maestri Lang, Pabst e Siodmak.
Una vera chicca è Die familie Trapp in Amerika, film a colori del 1958 che è praticamente il seguito di Tutti insieme appassionatamente. Il pluripremiato film americano con Julie Andrews è, infatti, il remake del primo film del 1956,Die familie Trapp, ispirato alla biografia della baronessa Maria Von Trapp. Il sorprendente film della retrospettiva è il secondo della serie e racconta cosa succede a Maria, al capitano von Trapp e ai loro figli canterini quando, fuggiti dall’Austria nazificata, raggiungono gli Stati Uniti. Fa parte della rassegna anche il mitico Faust a colori di Peter Gorski, nel quale Mefistofele è interpretato da Gustaf Gründgens, l’attore che ha ispirato il Mephisto di Klaus Mann, tradotto per lo schermo da István Szabó. Si segnalano, poi, i film della Repubblica democratica tedesca, frutto della collaborazione produttiva (ma segreta) con quella federale, o i film, troppo emancipati, della RDT o della repubblica popolare di Polonia, che nella borghese Germania occidentale vennero censurati, o quelli, come Weisses blutt, che per l’argomento trattato, le malattie dovute alle radiazioni atomiche tra la popolazione civile e i militari occidentali, non si sarebbero mai potuti girare nella RFT sotto tutela americana.
L’ultimo film che merita di essere ricordato è il coraggioso Le ciel attendra, che, senza pregiudizi, racconta la storia, ispirata a fatti veramente accaduti, di due ragazze francesi le quali, all’insaputa dei genitori, sedotte online da terroristi islamici, si convertono e decidono di partire per la Siria allo scopo di raggiungere l’Isis. Il film verrà proiettato in piazza Grande e susciterà sicuramente un grande dibattito e forse qualche polemica.
Per la gioia dei cinefili e del pubblico in cerca di star completano il programma di Locarno gli incontri con Alessandro Jodorowskl, Hervey Keitel, Roger Corman, Stefania Sandrelli, Bill Pullman, Mario Adorf, Valeria Bruni Tedeschi, Ken Loach e molte altre personalità del cinema mondiale.