Si torna a casa. Dopo l’abbuffata del Festival di Venezia 2016 è tempo di bilanci e riflessioni. Venti film in concorso molto diversi tra di loro. Apprezzamenti da pubblico e critica, qualche sorpresa nei premi e qualche divisione su autori nuovi ed altri emergenti. Di tutto, di più. A vincere il Leone d’oro un film filippino, The woman who left, diretto da Lav Diaz, regista culto che cerca la “sintesi”, con questo film di quasi tre ore (il suo film precedente era di otto ore), parlando di redenzione e trascendenza. Un film osannato da tutti quelli che hanno osato varcare la soglia del cinema e lasciarsi andare al suo tempo infinito e indefinito. In quanti lo vedranno in sala?
Gran Premio della Giuria a Tom Ford, con Nocturnal animals, capolavoro di stile e thriller esistenziale al servizio di critica e pubblico. È nata una stella, sdoganata perfino dalla critica pomposa e dalla sempre fiera giuria di Venezia, presieduta quest’anno da Sam Mendes. Ex aequo, Leone d’Argento, alle regie di Andrei Konchalovsky e Amat Escalante, rispettivamente per Paradise, una lunga e dolorosa confessione dei peccati sull’Olocausto, e La regiòn salvaje, film scandalo che ha sorpreso e diviso per la sua rappresentazione fallica e fantascientifica del piacere.
Coppa Volpi per Oscar Martinez (migliore interpretazione maschile ne El ciudadano ilustre) e Paula Beer (migliore interpretazione femminile in Frantz). Chiudono i premi maggiori, il riconoscimento a Federica Di Giacomo, con Liberami, film documentario sulle pratiche di esorcismo (miglior film nella sezione Orizzonti), e Fien Troch per Home (migliore regia nella sezione Orizzonti), sul difficile rapporto tra l’adolescenza e l’età adulta.
Cosa ci lascia la 73° edizione della Mostra del Cinema di Venezia? L’idea di un Festival per pochi, anche se pieno di gente. Il pubblico è accorso a frotte. Code interminabili nelle sale gremite di giovani, adulti, anziani. Tutti in fila per perdersi negli infiniti mondi dell’immaginazione. Tante persone, ma giunte a Venezia da tutto il mondo. Non è il pubblico reale, quello dei cinema di città o di paese. Molti di questi film non li vedrà nessuno, programmati pochi giorni o persi negli archivi dell’arte nobile, autocompiacente e autoreferenziale. Un cinema che urla, sordo, per pochi, senza volere o potere cambiare il mondo.
Cinema contemplativo, lusso contemporaneo? L’idea di un’Italia con poche idee, con tre film davvero modesti in concorso. Mentre in molti viaggiano a cavallo del mondo, i nostri registi ci portano nel quotidiano con due brillanti commedie popolari, Piuma e Questi giorni, dove si sorride e si riconosce qualche piccola verità ombelicale, e con Spira Mirabilis, un’opera volontariamente impossibile, da cui fuggire. È la legge del mercato italiano? È l’opposto di un cinema ambizioso. Torniamo a fare cinema intelligente che ne abbiamo davvero bisogno. Dopo tutto, si è visto che si può fare.
L’idea di un mondo cinematografico ricco di storie vere e lontanissime, che sono viaggi in luoghi impossibili per il turismo contemporaneo. Paesi che soffrono e che gridano al mondo attraverso il cinema, raccontandosi così come sono. In Colombia scopriamo Los Nadie, giovani dimenticati. In Nepal White Sun, dove il presente si affanna a seppellire il passato. In Turchia Koca Dünya, con due giovani risucchiati dalla foresta. In Croazia viviamo la gabbia distruttiva della famiglia, con Stop staring at my plate. In Iran la donna umiliata e uccisa nella dignità in Malaria. In Italia, fuori concorso, Robinù di Michele Santoro, che ci parla della perduta gioventù napoletana, quella vera, violenta e pericolosa.
Mondi sconvolgenti, difficili, anche al cinema, ma ricchi di interrogativi, che schiantano il nostro mondo dorato. L’idea di un’America ancora oggi indispensabile. Sono le star di Hollywood a brillare sul red carpet. Non i loro abiti, ma le loro storie e tutte le emozioni che sanno regalarci, sempre, con la strafottenza meritata di chi non ha bisogno di imparare nulla da nessuno. Quando è d’autore, il cinema americano ci ricorda sempre che è possibile dire qualcosa di importante e dirlo in modo cinematografico. La la land, Jackie (il migliore a Venezia), Hawksaw ridge, I magnifici 7. Occhi stralunati, pubblico scrosciante, lezioni di Cinema e mitologia contemporanea.
Lo si sa, non esiste solo l’America: ci sono molti modi nobili di fare cinema e a Venezia ne abbiamo visti alcuni. Ma dall’altra parte dell’Oceano arriva la lezione inequivocabile di un cinema che sogna di cambiare il mondo, almeno quando vuole. E per cambiare il mondo, serve un pubblico che ascolti, che discuta, che rifletta.
In fondo è solo pubblico, non il demonio. Ed è il fine di un’arte che vive in sala, e non nelle stanze di un museo.