Tra tutti i film proposti nella rassegna, I predatori dell’arca perduta è quello che meno necessita di presentazioni. L’American Film Institute l’ha inserito tra i migliori 100 film di tutti i tempi, e il nome di Steven Spielberg si trascina dietro una fama spropositata. Ma qual è il segreto, la formula che ha reso Indy tanto celebre? In questo sesto appuntamento cerco di scoprirlo, analizzando brevemente gli elementi dietro al mito.
Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare del celebre archeologo Indiana Jones. Che lo si sia visto al cinema, nelle infinite repliche televisive o di sfuggita, I predatori dell’arca perduta è entrato nella storia del cinema per sequenze memorabili come la fuga dal masso di pietra e per l’iconicità del personaggio di Indy, interpretato da un allora lanciatissimo Harrison Ford. Per questo motivo, recensire I predatori dell’arca perduta nel 2016 è un’impresa ardua, specie se non si vuole cadere nel superficiale o nel già detto. Conscio di tutto questo, ho voluto almeno tentare di dare un taglio più preciso a quella che, altrimenti, sarebbe stata una recensione scialba e anacronistica; ecco, dunque, quelli che secondo me sono i motivi del successo planetario di Indiana Jones, visti con l’occhio distaccato di chi quel lontano autunno del 1981 non era ancora nato.
Innanzitutto il protagonista. Pare scontato, ma portare sullo schermo un personaggio come Indiana Jones non è affatto semplice. Deve attrarre più persone possibili senza per questo scadere nel “già visto”, deve avere debolezze umane, ma al tempo stesso anche la forza hollywoodiana (fisica, ma soprattutto mentale) per superare gli ostacoli che gli si parano via via davanti. E Harrison Ford, noto ai più per aver interpretato Han Solo nella neonata (all’epoca) saga di Star Wars, offre il volto e il carisma perfetto per caratterizzare l’archeologo donnaiolo, il professore diviso tra un umorismo “a misura d’uomo” e una titanica, costante ricerca dell’avventura a ogni costo.
A proposito di avventura, il film segue il più classico degli schemi narrativi che dalle primordiali epopee orali giunge, intatto, fino ai giorni nostri. Il mito dell’eroe che, dopo una successione crescente di ostacoli, riesce a ricucire l’ordine stravolto in partenza (poco importa se si tratta di ordine universale, come ne Il signore degli anelli, o un ordine privato, mentale, affettivo) è l’ossatura di ogni narrazione epica, e il pregio di Indiana Jones è di averla trasportata dai castelli di un medioevo avvolto nella superstizione a un presente altrettanto misterioso ed esotico, con templi maledetti, foreste pluviali e deserti al centro dei quali si celano tesori leggendari. Così come l’amico e collaboratore George Lucas ha ridefinito il concetto di “epica fantascientifica” con il suo Star Wars, Steven Spielberg fa di Indy – non a caso interpretato da un attore-icona della saga lucasiana – un moderno Ulisse, spinto al di là delle colonne d’Ercole da un’insaziabile sete di conoscenza.
A questi motivi più inerenti alla sceneggiatura che non alla figura del regista, il talento raro di Steven Spielberg nel raccontare storie si manifesta in una regia che non perde un colpo nonostante l’età. Basti pensare, a titolo d’esempio, alla scena in cui i nazisti scoprono e inseguono la coppia Indiana/Marion (Karen Allen) tra i suk e le vie di una città egiziana: lo spettatore sa che, alla fine, il protagonista la farà franca, ma la tensione è data comunque da un sapiente alternarsi tra la fuga di Marion, quella di Indiana, e il tentativo da parte di quest’ultimo di salvare la prima. Quando possibile, nelle scene d’azione Spielberg impila e intreccia sfide sempre difficili, e anche quando non gli è possibile alternare tra più personaggi (come nel lungo inseguimento con il camion), il ritmo serrato è garantito da un costante senso di pericolo.
Per concludere una disamina decisamente sbilanciata sul versante degli aspetti positivi, il vero, profondo motivo dietro al successo di Indiana Jones è quello di aver saputo solleticare e stimolare quella parte dell’essere umano che brama l’avventura e l’esotico. Quella stessa parte che un secolo prima si emozionava leggendo Salgari, e che ora, lungi dall’essere tramontata, trova nel videogioco, in certo cinema d’avventura o nel fumetto una nuova incarnazione