Dopo L’ululato, concludiamo la parentesi tematica dedicata alla licantropia con un film che punta al capolavoro. Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis dovrebbe figurare nella cineteca di chiunque ami la settima arte, ed è imprescindibile per chi voglia aggiungere un fondamentale tassello nella propria collezione horror. 



 

Non si può parlare di lupi mannari al cinema senza citare (con tanto di cappello e riverenza) John Landis. Per usare una metafora matematica, il celeberrimo Nosferatu di Murnau sta al vampiro come Un lupo mannaro americano a Londra sta al licantropo. E questo non perché il film di Landis sia il primo ad aver parlato di uomini-lupo, quanto perché ha dettato standard, convenzioni e spunti utilizzati ancora oggi nel genere. 



Dopo il successo di Animal House e, soprattutto, The Blues Brothers, l’impronta dell’americano John Landis era familiare a tutti. E lo sarà per molto, anche se magari inconsapevolmente, se si pensa che è suo uno dei film natalizi più acclamati e riproposti dalle tv del Bel Paese, ovvero Una poltrona per due. Per tornare al 1981, però, Un lupo mannaro americano a Londra (d’ora in poi abbreviato, poco elegantemente, ULMAAL) riporta sotto i riflettori sia Landis che Rick Baker, responsabile degli effetti speciali premiato con un meritatissimo Oscar.

Il film si apre tra le distese brulle dello Yorkshire, dove due studenti americani sono in gita. Dopo un lungo preambolo, Jack (Griffin Dunne) viene aggredito e ucciso da un enorme canide in una notte di luna piena, sotto lo sguardo inerme dell’amico David (David Naughton). Quest’ultimo viene trasportato a Londra e accudito dall’infermiera Alex (Jenny Agutter), ignara del fatto che il ragazzo di cui si sta innamorando sta covando dentro di sé la maledizione del lupo mannaro, destinata a manifestarsi nelle notti di luna piena.



Pur con delle premesse così classiche, ULMAAL si distingue per lo stile che Landis gli ha impresso, un marchio indelebile che sopravvive anche ai frequenti cambi di genere a cui il regista ci ha abituati. C’è l’ironia a tutti i livelli (sia visivo che sonoro), c’è il gusto per il macabro, c’è l’immancabile pessimismo di fondo che si traduce in una costante oscillazione tra il dolce della auto-parodia e l’amaro di un finale che non tiene a freno la violenza. 

A differenza di Joe Dante, abituato a rappresentare comunità chiuse e ristrette, Landis punta la lente di ingrandimento sul protagonista, sul suo rapporto con Alex, e lo getta in una Londra vibrante ed estesa, contrappunto spaziale alla desolazione del prologo. La città si fa teatro del dramma di un uomo solo – non più una setta, ma un ragazzo alle prese con il senso di colpa e la solitudine della propria condizione -, finché i tunnel claustrofobici della metropolitana e le insegne di Piccadilly Circus non assurgono a protagonisti, nuovi palcoscenici per un orrore che sembra andare avanti dalla notte dei tempi. 

Per concludere con dei non trascurabili tecnicismi, la trasformazione di Daniel in lupo mannaro, come già accennato, è valsa al suo creatore Rick Baker l’Oscar. Vista oggi, la lunga sequenza sulle note di “Blue Moon” non ha perso lo smalto di un trentennio fa, tanto da meritare una menzione speciale in qualsiasi storiografia degli effetti speciali. Non è un caso quindi se, un paio d’anni dopo, sarà proprio a John Landis che Michael Jackson proporrà di girare quello che sarebbe passato alla storia come il più ambizioso e costoso video musicale mai prodotto, Thriller