Pablo Escobar Gaviria è conosciuto come uno dei criminali più ricchi mai esistiti. Il suo impero della cocaina si estendeva dalla Colombia – Medellín, in particolare – al resto del mondo, controllando l’80% della polvere bianca su scala mondiale. La sua vita, fatta non solo di traffici illegali ma anche di un’insospettabile carriera politica poi naufragata, ha ispirato negli anni una lunga serie di film e documentari, fino ad arrivare recentemente su Netflix con una serie incentrata sulla sua figura: “Narcos”. 



Escobar (con il sottotitolo miltoniano Paradise Lost in originale), diretto dall’italiano Andrea Di Stefano, è uscito solo ora nel nostro Paese, anche se altrove è stato presentato e distribuito già nel 2014. Benché il re del narcotraffico, interpretato da Benicio del Toro, sia effettivamente il cardine attorno al quale ruota tutto il film, egli non ne è il protagonista. Nick (Josh Hutcherson) è un ragazzo canadese che, assieme al fratello Dylan e alla moglie di quest’ultimo, si trasferisce in Colombia per coronare il loro sogno di aprire un bar sulla spiaggia e praticare surf. Colpito dalla bellezza di Maria (Claudia Traisac), Nick finisce per innamorarsene, salvo poi scoprire, durante una festa alla sfarzosa Hacienda Nápoles, che suo zio non è altri che Pablo Escobar. 



Prima incursione nel mondo della regia dell’attore Andrea Di Stefano (attore ne Il fantasma dell’opera, Vita di Pi, ecc.), Escobar si rivela un’opera prima decisamente interessante, priva di fronzoli estetici, ma ricca di sostanza. La scelta di non fare un’autobiografia pedissequa ha permesso a Di Stefano di indugiare in una serie di licenze poetiche, prima tra tutte quella di dare alla pellicola un taglio romanzato, virato sul drammatico. 

Questo non vuol dire che Escobar non pecchi di un sentimentalismo che a tratti può risultare stucchevole, ma esso non prende mai il sopravvento sul resto del film, e non inficia la qualità della narrazione complessiva. Ciò che più stupisce è come Di Stefano sia riuscito a contrapporre, a una prima metà “introduttiva” in cui si delineano i rapporti tra i personaggi e ci si cala nella mente e nel corpo del protagonista, una seconda parte adrenalinica, fatta di suspense e di azione sapientemente ritmata. Nulla per cui gridare al capolavoro, ma sicuramente un esordio degno di nota.



Nonostante il protagonista, però, è Pablo Escobar a dominare la scena. Nel film viene esplorato sia il suo lato familiare, quotidiano – lo si vede giocare con i figli in piscina, disperarsi per un goal mancato -, sia quello sanguinario e paranoico, capace di ogni efferatezza pur di difendere il proprio onore e la propria famiglia. È un personaggio ambiguo, inafferrabile, e Di Stefano riesce a tratteggiarlo con un sapiente mix di verità storica ed esagerazioni romanzesche; ciò che ne risulta è una pellicola che riesce a intrattenere e a non annoiare, pur sfruttando la fama di una delle figure più inflazionate del piccolo e del grande schermo.