Dopo i clamorosi successi degli anni ’80 e ’90, Robert Zemeckis ha continuato imperterrito a lavorare cercando strade narrative e visive sempre differenti per il suo cinema, anche se questo significa attrarsi critiche negative per uno dei suoi film migliori, come il precedente The Walk. Una libertà, seppure ben piantata dentro il sistema hollywoodiano, che forse non è più di moda, come dimostra la tiepida accoglienza riservata al suo nuovo film, Allied – Un’ombra nascosta, tanto dalla critica quanto negli incassi. 



Il film – interpretato dall’accoppiata di divi Brad Pitt e Marion Cotillard, capaci di far parlare la cronaca rosa durante le riprese come ai vecchi tempi hollywoodiani – narra di due spie, Max e Marianne, che durante la Seconda guerra mondiale si incontrano in Marocco per una missione anti-nazista in cui devono fingere di essere sposi. Ma poi s’innamorano e si sposano sul serio: e sarebbero anche felici se non spuntasse fuori che forse Marianne è una spia tedesca. 



Scritto dal bravo Steven Knight (Locke), Allied è un thriller spionistico e sentimentale che oltre a essere ambientato negli anni ’40 sembra un omaggio e una riflessione sul cinema di quegli anni, sia narrativamente (il racconto passa dalla spy story stile Notorious e Casablanca, ai drammi inglesi ambientati sotto le bombe tedesche fino al puro melodramma finale), sia cinematograficamente.

Ciò che colpisce di Allied è che un film tutto costruito sull’artificio, la bugia, l’inganno (anche verso sé stessi) e la messinscena non neghi mai l’artificiosità del proprio stile: fin dalla prima scena – Pitt che cala sul deserto in paracadute ma la prospettiva della macchina da presa cambia di continuo facendo sembrare la discesa senza fine -, Zemeckis sottolinea come la macchina filmica non sia al servizio della credibilità ma dello spettacolo, della fascinazione divistica, dell’emozione dello spettatore e quindi non ha paura di calcare la mano, di mostrare scene o svolte narrative “impossibili”, di utilizzare sfacciatamente effetti speciali digitali od ottici per raggiungere lo scopo. 



Inoltre, il film è davvero pensato come un film classico anni ’40, esplicitamente hitchcockiano nel modo in cui la costruzione sembra partire dalle scene, dalle sequenze, da immagini e luoghi attraverso cui veicolare il racconto e non il contrario: per questo lascia senza parole la fattura di molti momenti che si potrebbero definire memorabili, come la scena d’amore in mezzo alla tempesta di sabbia, il gioco di puro montaggio basato su un orologio, un telefono che deve squillare e un taccuino per gli appunti, la visione dei bombardamenti dal giardino come fosse uno spettacolo pirotecnico o il gran finale in fuga. 

Zemeckis, seppur in ottica post-moderna, non fa mai filtrare l’ironia tipica di operazioni del genere e crede nel cinema e nelle sue armi in maniera entusiasta e persino un po’ ingenua, ma può permetterselo in virtù della grande padronanza dei tempi cinematografici e delle forme filmiche: a deludere un po’ allora, in un film di alto livello, è solo l’alchimia tra i due divi. Belli e bravi senza dubbio, soprattutto Cotillard, ma che paiono recitare sottotono, in deficit di carisma soprattutto nel rapporto di coppia, come se avessero paura di accendere le fiammelle del sesso in un film d’epoca. Ma è un difetto di non troppo conto se paragonato alla forza cinematografica ed emotiva che Zemeckis sa veicolare puramente con il suo talento. Una forza che probabilmente è lontana dai gusti contemporanei, purtroppo.