Less is more, meno è di più, è un motto che dall’architettura inglese è diventato valido per qualunque aspetto della creazione e dell’arte. È un precetto mutuato dalla classicità: solo il necessario alla comunicazione. Anche per un regista come M. Night Shyamalan vale, anche se può sembrare paradossale. Infatti, dopo il flop dei suoi due tentativi nel blockbuster hollywoodiano (L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth) a salvare la carriera del regista è stata la diminuzione del budget e delle ambizioni produttive: grazie alla Blumhouse di Jason Blum – specializzata in prodotti di genere a basso costo -, Shyamalan ha realizzato due piccole gemme come The Visit e l’ultimo, ancora migliore, Split.
Il film racconta di un uomo affetto da disturbo della personalità che ha diviso la sua psiche in 23 differenti alias e che è in cura presso una premurosa psichiatra. Ma dopo il rapimento di tre ragazze, l’uomo avverte che sta per spuntare dai recessi della sua mente una 24a personalità, la più violenta e terribile di tutte. Scritto dallo stesso Shyamalan, Split è un thriller psicologico (e psicotico) al confine con l’horror che sfrutta i territori inesplorabili della mente umana per tracciare un ritratto inusuale di un disturbo psichico (ispirato a un vero caso psichiatrico) in cui poter giocare coi limiti dei generi e ribaltarli, facendo passare la scienza dalla fantascienza o dal soprannaturale.
L’assunto affascinante del film è infatti che la moltiplicazione della personalità possa essere, se e quando controllata, la porta per accedere alle possibilità inespresse del cervello, al trionfo della capacità umana, tanto esplosivo da poter quasi far balenare l’idea di un super-uomo che possa forzare i limiti della natura e della fisica. A questo assunto, Shyamalan crede fino in fondo e lo porta narrativamente fino alle estreme conseguenze, senza ripiegare in facili colpi di scena o ripiegamenti razionalisti.
Ma ciò che rende Split un thriller davvero di buon livello è che il regista si fida soprattutto del suo cinema, del suo stile, della sua capacità di costruire suspense e tensione, sottile e perturbante paura con le immagini, con la sua capacità nell’uso della macchina da presa, con i lenti zoom, le carrellate chirurgiche, i tagli dell’inquadratura. Nel percorso di Shyamalan di rilettura contemporanea dei concetti cardine hitchcockiani di suspense e sorpresa, Split è il Frenzy del regista: ovvero un film libero e ardito, che osa con il racconto e la messinscena partendo da elementi classici e ravvivandoli, potendo godere di un peso produttivo minore, di dover sostituire gli effetti visivi alle possibilità della macchina da presa.
Tanto ardito da utilizzare il tipico finale a sorpresa del regista non per ribaltare ciò che abbiamo appena visto, ma per ricontestualizzarlo, per dargli un respiro più ampio e inatteso, per mostrare come creda ancora nella “verità” del cinema e non semplicemente nel suo essere un gioco per divertire lo spettatore. Certo, quella rivelazione finale può essere derisa e lasciare scontenti, ma è il segno di un talento che la serie B non ha spento, anzi, e in cui la libertà di gioco permette al regista di utilizzare un attore come James McAvoy al meglio delle sue potenzialità.