Domenica scorsa si è (finalmente) conclusa la maratona 007 di Sky. La piattaforma satellitare ha infatti trasmesso e ritrasmesso per un mese intero, su un canale dedicato, tutti i 24 film ufficiali dell’ineffabile James Bond, agente del controspionaggio britannico al servizio di Sua Maestà, nome in codice 007 – con licenza di uccidere -, nato dalla fantasia letteraria dell’ex ufficiale della Royal Navy, nonché nobile per matrimonio, Ian Lancaster Fleming (1908-1964). La full immersion bondiana ha contemplato anche un paio di pellicole apocrife: James Bond 007 – Casinò Royale (J. Huston et altri, 1967), parodia discontinua ma con un cast d’eccezione (David Niven, Peter Sellers, Ursula Andress, Orson Welles, Woody Allen, Deborah Kerr, William Holden, Peter O’Toole); e soprattutto Mai Dire Mai (I. Kershner, 1983), remake di uno 007 ufficiale (Thunderball, 1965) prodotto da Kevin McClory, il quale poté realizzarlo fuori dalla “linea Broccoli” poiché coautore del trattamento da cui Fleming, nel 1960, aveva ricavato l’omonimo romanzo. Per “linea Broccoli” intendiamo segnatamente i film realizzati dai due storici produttori della serie Albert Broccoli e Harry Saltzman, che in società acquistarono i diritti delle opere di Fleming e sfornarono il primo James Bond cinematografico nel 1962: Agente 007 – Licenza di Uccidere, di Terence Young. “Linea” continuata con successo dal solo Albert Broccoli a partire da La Spia Che Mi Amava (L. Gilbert 1977, 10° della serie), cui dal film GoldenEye (M. Campbell 1995, 17° della serie, l’anno precedente la scomparsa di Broccoli) è subentrata una squadra guidata dalla figlia Barbara e dal di lei fratellastro Michael G. Wilson.

Quella dell’agente James Bond è la serie cinematografica a protagonista unico più di successo, forse, della storia del cinema. Anche parecchio longeva. Pur costruita su un canovaccio sempre uguale a se stesso, e con sostanzialmente sempre gli stessi personaggi – ma via via con attori di peso nei panni del deuteragonista cattivo, tra cui spiccano Adolfo Cieli, Telly Savalas, Christopher Lee, Curd Jurgens, Christopher Walken; Javier Bardem e Mathieu Amalric nei film più recenti – ha saputo trasporre con intelligenza le storie di Fleming e rinnovarsi anche oltre di esse, affascinare gli appassionati e non con sceneggiature ben scritte, storie avvincenti in bilico tra azione pura e ironia della migliore commedia, scenografie spettacolari, spesso con soluzioni avveniristiche, che hanno contribuito a dare al tutto l’aspetto di un esotico, variopinto fumetto. Un grande gioco spettacolare in cui tutto funziona a meraviglia per il sereno godimento degli spettatori. 

L’eterno scontro tra il bene e il male, fulcro di gran parte della narrazione occidentale di ogni epoca, trova nei film di James Bond un’incarnazione peculiare, riconoscibile a prima vista, quasi una stilizzazione in punta di fioretto nella quale le due fazioni risultano sempre ben distinguibili, a tutto vantaggio del pubblico di ogni età, ceto e cultura. Caratteri forti e chiari di un prodotto culturale vincente. 

Ian Fleming scrisse dodici romanzi e nove short stories sulle gesta dell’agente 007, tutto pubblicato a partire dal 1953 fino a due uscite postume negli anni immediatamente seguenti la scomparsa. Per sua stessa ammissione, lui – ex giornalista – cominciò l’impresa di scrittore per “sconfiggere la noia della vita coniugale”, fresco del matrimonio con Anne G. Rothermere, contessa di Charteris. Durante l’inverno si ritirava in Giamaica, dove possedeva una tenuta, e per due mesi lavorava metodicamente al nuovo romanzo, che puntualmente vedeva la luce nella primavera di ogni anno. Il protagonista è la summa di tutto quanto lui stesso, ex militare con mansioni di intelligence e di sabotaggio durante la Seconda guerra mondiale, avrebbe voluto essere (ed in parte è stato): alto, elegante, colto e intelligente, abile nelle arti marziali e con ogni tipo di arma, in specie se bianca, poliglotta, raffinato nel vestire e buongustaio, dotato di fascino irresistibile cui nessuna donna, specialmente se schierata nel campo avverso, sa resistere. 

Pur amando il gioco d’azzardo, forse Fleming non avrebbe scommesso un penny (anzi, una Moneypenny, ha!) su un così importante e duraturo successo della sua creatura al cinema. Ma la forza sta nel cinema stesso: non tanto nell’accurata costruzione del personaggio letterario, quanto nell’aver azzeccato – fin dall’esordio del 1962 – la sua trasposizione in immagini: forti, in film di impatto, anche emotivo, notevole, e con alcune scene indimenticabili. Il sovradosaggio mediatico appena concluso – ogni singolo film passato almeno dieci volte – certifica, in maniera lampante, l’appartenenza di queste opere alla categoria dei prodotti di largo consumo dell’industria dell’intrattenimento culturale. Prodotti si, ma in confezione superlusso, almeno gli episodi migliori, più della metà dei quali sono un autentico piacere dello sguardo. Un apoteosi del voyeurismo volto al puro spettacolo, senza che il tutto sia mai da prendere troppo sul serio. Un vantaggio, in questi ambiti. 

Altro ingrediente chiave del duraturo successo della serie è stato l’attore protagonista. Lo scozzese Sean Connery fu lo storico primo 007. Con sei pellicole al suo attivo, più il già citato apocrifo del 1983, Connery è stato un Bond sornione, fascinoso e autoironico al punto giusto, dai più giudicato il migliore. Lo segue il più british style di tutti, Roger Moore, forse proprio per questo gratificato dai produttori con sette presenze ufficiali, il record finora. Con lui il personaggio si perde un po’ nel gigantismo scenografico, ma guadagna in humour e disinvoltura acrobatica. Poi il gallese Timothy Dalton, ultimo Bond dell’era Broccoli: per lui due interpretazioni, con meno humour e realismo più diretto. 

Con la nuova produzione, inaugurata nel 1995 da GoldenEye, si ha dapprima, con l’irlandese Pierce Brosnan, un ritorno al Bond autoironico e snob delle origini, anche se qualità in larga misura soffocate dal gigantismo tecnologico; poi, con Daniel Craig, elegante attore inglese interprete degli ultimi quattro film, la serie riparte su ipotesi parzialmente nuove, reimpostata su una caratterizzazione più cruda e umana del personaggio, la più vicina di tutte le precedenti al Bond letterario. Una menzione speciale merita l’australiano George Lazenby, Bond una sola volta ne Al Servizio di Sua Maestà (Peter R. Hunt, 1969), poco amato da tutti – produttori compresi -, ma protagonista del miglior film di sempre in quanto a compattezza dell’intreccio, trovate narrative e tratteggio dei personaggi, con anche un montaggio d’eccezione. E con un finale a sorpresa, nel quale l’agente 007 arriva (perfino!!!) al matrimonio, di certo un ruolo che al James Bond elegante, spregiudicato donnaiolo che tutti amiamo poco s’attaglia.