James Ivory è stato per un buon decennio uno dei principali rappresentanti del cinema britannico, soprattutto della sua tendenza classicista, votata all’adattamento di classici della letteratura e alla ricostruzione d’epoca. Prima che questa sua tendenza sfociasse in maniera a tratti goffa, il regista ha realizzato opere non solo di fattura notevole, ma soprattutto in grado di parlare al presente. Quel che resta del giorno (1993), tratto dal romanzo del recentissimo premio Nobel Kazuo Ishiguro, è uno degli esempi più alti in questo senso. 



Al centro c’è un maggiordomo che per molti anni ha servito il suo padrone con rigore, senza che mai trasparissero emozioni o idee personali. L’arrivo di una giovane cameriera e la vicinanza del padrone alle nascenti idee naziste rischiano di far crollare quella cortina apparentemente impenetrabile. 

Scritto dalla sodale Ruth Prawer Jhabvala e da Harold Pinter (non accreditato), Quel che resta del giorno è un dramma emozionale sottilissimo nel giocare sulle ambiguità del dolore, sulle sfumature dei personaggi e su un originale parallelo tra drammi personali e drammi storico-politici. Accusato di formalismo all’uscita, in realtà il film di Ivory attua un’incredibile opera di adesione stilistica al personaggio che racconta: la compostezza di Stevens che diventa maniacalità è la stessa delle inquadrature e delle scelte registiche di Ivory e del suo team (Tony Pierce-Roberts alla fotografia, Luciana Arrighi e Ian Whittaker alle scenografie, Andrew Marcus al montaggio, Jenny Beavan e John Bright ai costumi), la distanza con cui interpreta il mondo che lo circonda si incrina allo stesso modo con cui la macchina da presa e le musiche di Richard Robbins incrina la freddezza della messinscena.



Così l’accusa si sbriciola e il film trascende l’accademismo in cui Ivory cadrà successivamente attraverso un lavoro di scrittura che è anche un lavoro di scrittura con le immagini e delle immagini, mostrando i sentimenti sotto pelle in un gioco con gli attori che ha del miracoloso: si veda per esempio la sequenza in cui Emma Thompson vuole scoprire che libro stia leggendo Anthony Hopkins, il modo in cui giocano e si scherniscono, quando lei cerca di forzare la mano e lui anziché preoccuparsi di difendere il suo segreto le fissa le labbra e il volto, senza stacchi, giocando solo sul volto degli attori. I due protagonisti sono straordinari, ovviamente, ma qui è il ruolo della regia a essere fondamentale. 



E rivisto oggi, mette i brividi il discorso di Christopher Reeve sui pericoli dell’amatorialità in politica e sull’importanza del professionismo e della competenza per sconfiggere i pericoli autoritari. Un film che non racconta direttamente la passione, ma ne mette in scena il lavoro subliminale, il modo in cui forma e corrode gli esseri umani. Un film precisissimo e ammirevole.