Parigi. Anni ’90. Nel bel mezzo della diffusione silenziosa dell’epidemia dell’Aids, un gruppo di attivisti omosessuali, riuniti nell’associazione Act Up, portava avanti una battaglia pacifica contro Stato e case farmaceutiche, per avere dignità, attenzione e rispetto, e per promuovere l’informazione davanti a una popolazione silenziosa. Con grida, proteste, manifestazioni, corpi sdraiati per terra senza opporre resistenza, finto sangue lanciato contro i muri dell’indifferenza, i ragazzi di Act Up provavano disperatamente a sfidare le istituzioni e la malattia.
Centoventi sono i battiti accelerati di un cuore che esplode. Sono i battiti un gruppo di persone che ha lottato strenuamente per la propria sopravvivenza. E sono anche i battiti di un ragazzo che ha lottato con il suo ragazzo al fianco, fino alla fine. Centoventi sono i battiti delle emozioni che un gruppo di persone disperate e coraggiose hanno mostrato al mondo, e al loro Paese, chiuso nel silenzio e nell’indifferenza verso una malattia scomoda. Centoventi sono, in qualche modo, anche i battiti del pubblico che, di fronte a un film dirompente e militante, ha avuto modo di partecipare e di soffrire con loro, a partire dalla sua presentazione e premiazione allo scorso Festival di Cannes (Gran Prix 2017).
120 battiti al minuto è un film di denuncia, un documentario in prima linea che incrocia la cronaca con la storia personale dei protagonisti. I fatti con i sogni di chi vi ha partecipato e che ora, inevitabilmente, non c’è più. L’Aids, negli anni ’90, è stata una malattia terribile e aggressiva. Il virus penetrava nel corpo di ignari malcapitati, in gran parte omosessuali, mangiandosi le loro vite, di fronte all’impotenza della medicina, ai dubbi della politica e all’ignoranza della popolazione. Il legame evidente con la diversità scomodava sommarie condanne morali e alimentava pregiudizi ed emarginazione.
In questo contesto Act Up ha raccolto il diritto di parola e di esistenza di molti, in una società predigitale, nella quale la visibilità pubblica era ancora una questione di corpi e di piazze. Robin Campillo, regista marocchino francese, ci porta dentro alle riunioni del movimento, alle quali partecipò realmente. Ci mostra i contrasti, i dibattiti, le paure, le esitazioni, le soddisfazioni, i traguardi che passo dopo passo porteranno il tema all’attenzione di una popolazione disinformata e disinteressata.
I ragazzi e le ragazze, ci racconta Campillo, usavano i loro corpi per proteggersi e comunicare, aprendo provocatoriamente la strada al cambiamento. Sono stati eroi, combattuti tra la paura e l’istinto di sopravvivenza, tra la difesa di sé e la difesa degli altri. Da ogni nuovo, possibile, straziante e mortale contagio. Nel rumore dell’assurdo, che vide le istituzioni sorde opporsi alle schiere disturbanti di centinaia di ragazzi fragili e disorientati, seguiamo in silenzio, con attonita partecipazione, le storie di alcuni, consumati dal quotidiano deperimento, condannati alla conta speranzosa degli anticorpi. Storie di dignità, fatte di battaglie pubbliche ma anche private. Combattute da soli, o con la lieve carezza delle madri, degli amici o dei compagni al fianco, animati da una folle quanto vana speranza.
Il regista sa quello che racconta, e non nasconde i segni sulla pelle dei protagonisti infettati, portando la macchina da presa accanto ai corpi nudi, attaccati alla vita. Rispetta il dolore, al servizio della verità e della denuncia che oggi ha cambiato i toni, ma che ha ancora molto da dire contro il silenzio diffuso su di un virus fortemente ammaestrato, ma ancora presente. Complice il tabù sessuale, la paura del diverso, l’accusa implicita a una natura incolpevole che, in quegli anni, fu una condanna anzitempo per molti. Una colpa che striscia nella coscienza pubblica, nei poteri forti, nelle chiusure ideologiche e religiose, nel silenzio delle masse.
Con Act Up, insieme a molte altre associazioni, la battaglia è cresciuta, guadagnando l’alleanza di milioni di nuove coscienze pronte a riconoscere la dignità di chiunque e il valore irrinunciabile della differenza. Un’evoluzione della “specie”, che riconosce anche ciò che ci fa paura, e che lascia finalmente e inevitabilmente dietro di sé l’occhio primitivo dell’ignoranza.