In principio, la serie cinematografica di Thor era stata pensata come una versione super-eroica della mitologia shakespeariana, tanto da affidare la prima regia a Kenneth Branagh, padre del moderno Shakespeare cinematografico. Ma quella seriosità (che già nel secondo capitolo, The Dark World, diretto da Alan Taylor e figlio del “Trono di spade”, era cresciuta un po’) non era diventata mai serietà. Tanto valeva ribaltarla in parodia: è l’idea vincente di Thor: Ragnarok, il terzo film con il figlio di Odino come protagonista diretto stavolta dal neozelandese Taika Waititi, esperto di humour stralunato sul filo del demenziale (What We Do in the Shadows è un piccolo gioiellino del genere). 



Stavolta Thor deve affrontare il Ragnarok, ovvero la battaglia mitologica tra Luce e Tenebre che porterà alla distruzione del mondo: ma mentre la sorella Hela, dio della morte, mette in pratica la distruzione, Thor si trova schiavo in un pianeta lontano, usato come gladiatore dal Gran Maestro. Rincontrare Hulk sarà fondamentale per la salvezza della Terra. 



Scritto da Eric Pearson, Craig Kyle e Christopher Yost, Thor: Ragnarok è un film comico in piena regola, almeno per due terzi della sua durata, una vera e propria parodia come detto, che sfrutta l’azione e lo spettacolo per costruire gag, personaggi divertenti, per ribaltare gli schemi dell’epica fantascientifica o mitologica contemporanea. 

Il modello evidentemente è quello de I guardiani della galassia, ma Waititi lo porta ancora ancora più all’estremo in termini di caratterizzazioni e uso dell’umorismo, rinnegando la compattezza della space opera propria anche nella sua versione buffonesca: il film è, come appunto nel cinema comico, una raccolta di gag, sketch e trovate che ribaltano un universo filmico attraverso la scomposizione delle sue fonti d’ispirazione. Star Wars, ovviamente, ma anche i televisivi “Farscape” o “Serenity”, che nell’utilizzo dei colori caldi e pastello oppure fluorescenti diventano gli scarti degli anni ’80 e ’90, come i “Power Rangers” (citati nelle scenografie e nei costumi volutamente di cartapesta). E questi scarti – anche in senso semantico – producono un umorismo che così radicale non si era mai visto e che passa anche per l’assalto alla virilità di Thor che perde prima il suo martello, viene picchiato da due donne amazzoni (oltre Hela – una Cate Blanchett mai così sexy – anche la Valchiria di Tessa Thompson), viene rasato e spogliato di ogni fascino maschile per passare poi dentro L’Ano del Diavolo (sic). 



Ma anche senza residui psicoanalitici, il film è la distruzione di una mitologia, un vero e proprio ragnarok del cinema Marvel Studios composto come una raccolta di bizzarrie, di momenti incredibili e improbabili messi in scena con competenza e precisione comica: basterebbe vedere il montaggio di quasi tutte le gag per godere del talento di Waititi in questo senso e della sua astuzia nel porsi al centro preciso tra cialtroneria registica e sofisticazione digitale per creare risate. 

Certo, il gran finale e lo show distruttivo vanno garantiti, a base di effetti speciali di ogni sorta e di momenti narrativi bigger than life che sono inadatti allo stile che il regista ha dato al film fino a quel momento e il film perde un po’ di mordente: eppure Thor: Ragnarok riesce a divertire sinceramente e a sdrammatizzare anche le esigenze della produzione. Anche nell’apocalisse, una risata li seppellirà.