“Un sacco di gente sostiene di ricordarsi delle vite antecedenti; io sostengo invece di ricordarmi di un’altra vita presente” . (Philip K. Dick, 1977. Convegno di Metz)
“Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti -eppure tutto sembra senza limite”. (Dialogo finale da “The sheltering sky” di Bernardo Bertolucci, tratto dall’omonimo romanzo di Paul Bowles)
Dove eravamo rimasti? Al finale di un uomo e una donna, o forse una replicante che si allontanano da una Los Angeles perennemente piovosa per aprirsi a un futuro di speranza, sottolineato dall’inatteso aprirsi alla luce del panorama di fronte ai loro occhi. Sì, l’occhio specchio dell’anima: l’occhio che viene scrutato nel noto test per scoprire se si è umani o replicanti. Rachel è speciale, pensa e spera l’uomo per la donna di cui è innamorato; Rachel forse vivrà più di quattro anni, tempo limite di fabbricazione imposto dalla corporazione che ha prodotto gli androidi. Terminava in questo modo la caccia ai fuggitivi che si erano ribellati alla fine, alla morte scritta nei loro circuiti. Con la scelta di un uomo che disobbediva agli ordini e scappava verso un nuovo mondo.
Col tempo, siamo venuti a sapere che in realtà il regista non aveva previsto questo lieto fine, e che molto probabilmente la sua visione era più prossima a quella di Philip K. Dick, autore del romanzo da cui il film era tratto. Una chiusura, che adombrava, invece, un sospetto: anche il cacciatore umano, in realtà era un replicante. Pessimismo totale, buio, annichilimento del ruolo dell’eroe.
Dark & Light, due dimensioni non solo visive, ma anche interiori. Buio e Luce, le due facce dell’animo umano a cui arrivare, con l’aiuto di alcune domande (il famoso test Voight-Kampf) mirate a verificare se si è in presenza di un essere umano o di un macchina a cui hanno innestato dei ricordi, delle sensazioni, sogni forse. A questo punto è obbligatorio citare il titolo originale del libro che portò alla realizzazione di Blade Runner con quella meravigliosa domanda che nel 1968 campeggiava in copertina: Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? Questa riflessione non sarebbe mai nata se non ci fosse stato un precursore, un “padre”, che qualche anno prima aveva pubblicato una sorta di manifesto con l’articolo: Come si arriva allo spazio interiore, apparso sulla rivista New Worlds nel 1962. Stiamo parlando dello scrittore James G. Ballard, che con la definizione di Inner Space, apriva un varco verso la dimensione dell’inconscio, scendendo dallo Spazio extraterrestre verso quello dentro all’uomo, proprio agli inizi della rivoluzione mentale e sociale operata dai mass media.
Troppa luce qui!, esclamava Harrison Ford nel film dell’82, mentre si accingeva a interrogare un replicante in un luogo di per sé già molto buio. Per scendere nell’abisso delle pulsioni umane ci vuole più oscurità: il problema è cosa troveremo una volta arrivati sul fondo. Una tenda automatica oscurante, infatti, accoglie la richiesta mentre cala nella sala il buio dell’interrogatorio. Come un battito di ciglia, a siglare il paradosso degli occhi “spalancatamente” chiusi (Eyes Wide Shut) dell’ultimo film di Stanley Kubrick, lascito di fine millennio e della fine del secolo del Cinema, invenzione nata, guarda caso, in contemporanea storica con la Psicanalisi. Come è noto, Kubrick ha molto a che fare con il finale con le verdi vallate di Blade Runner; stremato dalla produzione che non voleva l’ending cupo che abbiamo potuto vedere nella versione director’s cut, Ridley Scott chiese al regista di Shining se poteva prestargli qualche ora di girato che sapeva provenire dall’elicottero che riprendeva la macchina di Jack Nicholson che si recava all’Overlook Hotel (overlook, ancora e sempre occhi, sguardi), altro luogo di nere pulsioni. Kubrick ne regalò ben diciassette di ore e le famose vallate che con la loro luce tanto sollievo portarono, in realtà provenivano dall’unico film horror girato in piena luce. Paradossi della visione e della mente, una realtà accanto a un’altra come sottolineava Philip K. Dick a Metz.
Nei giorni precedenti all’uscita di Blade Runner 2049, Denis Villeneuve si è ricollegato al finale originario, quello cupo, consigliandone la visione in preparazione al film. Nel 2049 ci troviamo in una situazione di post-blackout, giorni di buio prolungato che hanno portato al reset dei dati, delle memorie. Un mondo si è spento; restano i replicanti. Se nel film precedente veniva messa a tema la futura ibridazione tra uomo e macchina, ora ci troviamo al cospetto di un giovane agente anch’egli androide che ha il compito di “ritirare” quelli di vecchia generazione perché troppo umani. Rispetto all’onnipresente controllo della situazione e di ogni gesto, mentre svolge il suo lavoro, l’androide si imbatte in un imprevisto: gli viene sbattuta in faccia la parola miracolo. E accaduto qualcosa, un frangente che potrebbe mettere tutto in discussione: una nascita.
Qualcuno è “nato” invece di essere stato “creato”. Gli occhi bionici del giovane cacciatore hanno scorto qualcosa sottoterra, una presenza coperta, celata nel segreto di anni dalle radici di un albero. Tessiture che hanno avviluppato i resti di una vita precedente. Una data emerge dalla terra scostata dagli stivali del giovane blade runner: una data che fa affiorare ricordi, sensazioni, sogni forse. Arrivati a questo punto, l’agente replicante (notate che non ha un nome) ripensa a un sogno costante, chiedendosi se si tratti di realtà o di innesto: un bambino abbandonato in un orfanotrofio a cui viene conteso qualcosa, un oggetto che ha la stessa data trovata vicino all’albero.
È forse, il nostro protagonista un nato per fede? Un figlio di Dio, per usare la terminologia di un altro film che parlava di replicanti ponendo una netta distinzione: “Gattaca” (Guanina, Tinina, Citosina, vale a dire i nucleotidi del DNA). Sì, ma di quale Dio?
“Padre!”, gridava al suo creatore il replicante che non voleva morire nel film dell’82, “fammi vivere più a lungo”. Un grido di dolore, dal richiamo biblico, da parte di un androide che aveva sviluppato sentimenti umani e che non accettava il suo limite. La fine del mondo in cui era stato gettato. “Figlio” è la nuova parola, la verità sconvolgente che squarcia la desolazione post-atomica del 2049 e minaccia i piani dei creatori di androidi. Può una replicante procreare, riprodursi? È il Dio della tecnica quello che ci attende?
Di più non si può dire. Andate a vedere questo film. Parla di noi.