«Is Christopher Nolan the new Stanley Kubrick?», si era chiesto l’editorialista cinematografico Andrew Pulver su “The Guardian” del 15 luglio 2010 in occasione dell’uscita nelle sale britanniche di Inception. Dal canto suo il produttore, sceneggiatore e regista inglese – allora impegnato nella lavorazione di Interstellar – aveva dichiarato nell’aprile 2013 su “Entertainment Weekly” che «[d]a un punto di vista narrativo, registico, c’è una cosa che associo a ciò che fa [Kubrick], vale a dire la calma. C’è una calma, una fiducia proprie nella potenza della singola immagine che mi fa sentire in imbarazzo nei confronti del mio stesso lavoro: quante diverse inquadrature, quanti diversi effetti sonori, quante diverse cose gettiamo al pubblico per impressionarlo. Eppure in Kubrick c’è una così grande fiducia nella giustezza della singola immagine per spiegare con calma qualcosa al pubblico».
A distanza di sette anni dal suo articolo, stavolta per l’uscita nel Regno Unito di Dunkirk, lo stesso Pulver pare aver trovato più motivi di conferma che di smentita («With Dunkirk, Christopher Nolan has finally hit the heights of Kubrick», “The Guardian”, 19 luglio 2017): «Ogni accenno al termine K in relazione a Nolan ha per molto tempo suggerito sarcasmi, ma il suo decimo film è vertiginoso, stupefacente e duro come un diamante. Potrebbe essere il suo Orizzonti di gloria». Vale a dire la pellicola di cui ricorrono giusto oggi i sessant’anni dalla prima proiezione (a inviti) tenutasi a Monaco di Baviera l’1 novembre 1957 (essendo stata girata tra marzo e giugno negli studi di Geiselgasteig, nel castello di Schleissheim, nelle cittadine di Bernried – sul lago di Starnberg – e di Puchheim grazie all’allora favorevole cambio del dollaro) e che confermò il ventinovenne (e “indipendente”) Stanley Kubrick nel firmamento degli autori da tenere d’occhio per gli anni a venire, dopo il successo di critica (più che di pubblico) di Rapina a mano armata (1956).
Enrico Ghezzi, nella sua monografia dedicata al regista pubblicata da La Nuova Italia nella collana “Il Castoro cinema” nel febbraio 1977, afferma che «Orizzonti di gloria è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è proprio perché ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi del fenomeno. […] [R]esta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente determinata e con tutti i particolari al posto giusto […], eppure guerra che pare astratta, guerra in cui non si vede un nemico […]. La guerra come il gioco più complesso e crudele, nello stesso tempo forse il più tremendamente attraente. […] In pratica non c’è neanche partita, non c’è avversario […] e il matto è dato in partenza. La partita se la gioca se mai proprio K., costruendo il film su una serie quasi infinita di simmetrie e rinchiudendo quindi doppiamente gli uomini nella rete di un gioco in cui le regole sono solo sue».
Parole che – dalla storia alla Storia – descrivono assai da vicino l’esperienza in sala degli spettatori di Dunkirk: «Ci sono 400.000 uomini intrappolati in un solo luogo, su una spiaggia, spalle al mare, con il nemico che li circonda e si avvicina. È solo questione di tempo prima della resa o dell’annientamento. Il fatto che la storia non finisca con nessuna delle due cose è ciò che rende questo uno dei momenti più belli della storia dell’uomo, un episodio che volevo raccontare da tempo» ha spiegato Nolan, per il quale il film «è la corsa estrema contro il tempo, una questione di vita o di morte».
L’opera è strutturata in tre capitoli che si intersecano via via sempre più l’uno nell’altro: il molo, il mare, il cielo. Ma sono i tre rispettivi sottotitoli che sanno di guanto di sfida narrativo al pubblico: una settimana, un giorno, un’ora. Passi l’intreccio di tre linee di racconto, ma addirittura con una durata (come tempo degli eventi narrati) così diversa l’una dall’altra e per di più condensato in 106 minuti di cinema: «Per raccontare la storia da un punto di vista soggettivo, ho scelto la terra, l’aria e l’acqua come lenti e zoom della guerra. Una realtà virtuale senza casco, ad occhio nudo». Si tratta di una struttura che rappresenta in definitiva l’elemento più arduo da affrontare nel tentativo di fruire sia della forma che del contenuto di un film disegnato da una sceneggiatura letteralmente “a orologeria” (come le emozioni che dispensa) in cui – come lancette sul quadrante – si sentono scorrere (ossessivi) vincoli di spazio, di tempo e di destino, senza che venga però realmente concesso di legarsi a uno solo dei personaggi rappresentati.
Come detto, qualcosa di molto vicino alla lucidissima, “scacchistica” mise en scène kubrickiana di un’altra partita (persa, in questo caso: un assurdo processo per codardia che sfocia in tre condanne a morte per altrettanti innocenti scelti dai comandanti delle tre compagnie coinvolte in un gesto di insubordinazione e ispirato a quelli verificatisi in più occasioni tra le fila dell’esercito francese durante la Grande Guerra) giocata nel 1916 sul fronte franco-tedesco da un appassionato avvocato difensore in divisa «idealista e minorato» che però permetteva – cosa davvero più unica che rara in un’opera del “ragazzo del Bronx che è riuscito a diventare una stella” (Vincent LoBrutto) – di poter provare una decisa empatia per il colonnello Dax, una delle vette interpretative dell’attore (e co-produttore del film) Kirk Douglas. Mancano un’altra «sporca guerra» (Vietnam, 1964-1975) e trent’anni esatti alla marcia notturna – illuminata dalle fiamme degli incendi divampanti dagli edifici circostanti ormai ridotti a cumuli di macerie – del soldato Joker (Matthew Modine) cantando la “Mickey Mouse Club Song”…