La principale riuscita di Gli ultimi Jedi, ottavo episodio ufficiale della serie di Star Wars, è quello di essere riuscito a far convivere modi di intendere il racconto mitologico della saga e quello cinematografico diametralmente opposti, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo in un certo senso, lo spettacolo e il dramma intimo, la fedeltà a canoni e progressioni e la sua totale riscrittura.



Se Il risveglio della Forza (settimo episodio e primo della nuova trilogia) era un modo per far tornare a casa gli appassionati dopo il presunto tradimento della seconda trilogia, il nuovo regista Rian Johnson può permettersi il lusso di lavorare sui canoni, di riscriverli, di decostruirli anche senza necessariamente tradirli: anche autore della sceneggiatura, racconta dei tentativi di fuga della Resistenza guidata da Leia dalla caccia del Primo Ordine al comando di Snoke e Kylo Ren. Una fuga impossibile dal punto di vista militare, ma che potrebbe accendersi di una nuova speranza se Rey, la cui Forza è ancora grezza, riuscirà a convincere l’eremitico Luke Skywalker a insegnarle il cammino degli Jedi e a ricongiungersi alla resistenza. 



Lo scheletro è – in filigrana – quello de L’impero colpisce ancora, ovvero quello di un capitolo di transizione in cui tutto deve crollare, la morte e il male devono riempire l’orizzonte prima di riaccendersi per il finale (l’episodio 9, previsto fra due anni): e Gli ultimi Jedi è un film fatto di transizioni, passaggi, fughe e feritoie, in cui i personaggi sono in continuo movimento fisico e spirituale tra fragilità e ambiguità morali, in cui prima che il conflitto archetipico tra bene e male conta il conflitto interiore dei personaggi chiave. 

È qui che Johnson centra il suo obiettivo più interessante, lavorare in parallelo sulle fratture dei personaggi e sulle conseguenze in termini di racconto epico, concentrarsi sugli animi e su ciò che di loro celano – allo spettatore e a loro stessi – per poi trasporlo in battaglia, combattimento, duello (anche qui non solo fisico, come nella scena madre tra Kylo e Rey). Si passa senza soluzione di continuità, ma con lucidità e relativa originalità registica, dalle sequenze maestose e spettacolari fatte di inquadrature larghe e ricchissime (e in questo senso le sequenze memorabili sono molte, dalla prima battaglia alla fuga a cavallo di una mandria, dal grande scontro finale in un pianeta di cristalli rossi al gesto di Laura Dern che non riveliamo) ai primi e primissimi piani, al gioco di campo e controcampo, alle fratture – di nuovo – di luoghi e montaggio. 



Johnson conferma la bontà del lavoro fatto in Looper, in cui era già presunta questa disinvoltura del montaggio, mostra come regista la capacità di idee visive, di squarci di stilizzazione estremi e di pura goduria grafica, di messinscena sorprendente e come scrittore la voglia di osare, forse di esagerare, di cercare altri modi se non altre strade, anche toccando atmosfere che con il canonico Star Wars non affrontava, giocando tra disperazione crepuscolare e luce spielberghiana. 

Ed è un confronto visivamente e narrativamente ambizioso, anche in ottica futura visto che si parla già di una quarta trilogia, in cui Johnson non ha la minima intenzione di cercare equilibrio, di trovare un giusto bilanciamento. E va bene così, con imperfezioni e imprecisioni: a far quadrare di nuovo tutto ci penserà fra due anni il gran finale.