Anni ‘50. Nel parco di divertimenti di Coney Island scorre la vita turbolenta di quattro personaggi in cerca di se stessi. Ginny, cameriera infelice ed ex attrice fallita, è madre di Richie e moglie di Humpty, manovratore di giostre scampato al dolore della morte della prima moglie e dall’abbandono di Carolina, l’amata figlia in cerca di riscatto, che si presenta a Coney Island per fuggire dal marito gangster. A raccontare e completare la storia c’è Mickey, giovane e piacente bagnino, aspirante scrittore e amante delle due donne.



Quarantottesimo film di Woody Allen, La ruota delle meraviglie torna sulle infinite variazioni dell’amore che finisce sempre e inevitabilmente preso a calci. Fedele al suo tragico pessimismo cosmico, Allen narra la storia di una donna caduta nella trappola della coppia che funziona, distratta e illusa dal sogno di felicità e poi travolta dalla cruda verità della vita.



All’interno di un mondo consueto alla sua cinematografia, Allen ci offre un film intenso e originale, soprattutto nella sua messa in scena. Siamo a Coney Island, nell’estremo sud di Brooklyn, tra le ruote e le giostre di un luna park newyorkese, dove scorre ripetitiva la vita di una coppia di popolo, provata dal passato, sorretta da un amore “utile” al presente e non rassegnata a un triste futuro di ripiego. Allen ci racconta il sogno dell’amore che salva, travestito in due possibili e opposti finali, entrambi tragici: l’amore infinito è vano e illusorio, l’amore finito è finto e altrettanto illusorio. Tra vivere e morire c’è di mezzo sognare: un sogno breve, meraviglioso e privo di lucidità. 



Nel paese delle fate da quattro soldi Kate Winslet offre un’altra prova di grande recitazione, tesa a evidenziare i solchi della sofferenza che oscura e della speranza che illumina il suo mondo quotidiano, dove tradire è come sopravvivere. Attorno a lei l’abbondante e meravigliosa interpretazione di Jim Belushi, fragile e rozzo uomo di famiglia, strappato al fallimento di una vita inutile, pronto a suturare le ferite del mondo che l’ha ucciso una prima volta.

Juno Temple, nella parte di una figlia irriconoscente e disperata, in fuga dalla violenza di un marito di mafia, cerca casa e famiglia in un nuovo futile progetto di vita, acceso da un amore impulsivo d’adolescenza. A narrare la storia, come tra le pagine di un dramma letterario, Justin Timberlake, poeta fallito dall’alto del trono da bagnino, tra le spiagge colorate del mare d’America. Un intreccio asciutto di paure, dolori e amori che viaggia tra milioni di parole gridate e tra le luci abbaglianti di Vittorio Storaro, star internazionale della fotografia cinematografica. È forse lui il vero protagonista di questo film, travestito di originalità grazie soprattutto al bagliore dei colori che creano una personalità visiva memorabile, che si spinge fin oltre il realistico.

La luce sottolinea, in uno scenario fortemente teatrale, il caldo e il freddo delle emozioni che consumano i quattro protagonisti in fuga, in una storia insolitamente triste e avara di battute. Un quadro fatto di tutti i colori dell’esistenza, orchestrati da un grande vecchio del cinema che non finisce di stupire.