Guido, l’amico Ferruccio, lo zio Eliseo, la «principessa» (poi moglie) Dora, il piccolo Giosuè… Tutte figure entrate attraverso quella meravigliosa porta che è il grande schermo cinematografico direttamente nel cuore di milioni di spettatori di tutto il mondo oltre che nella storia del cinema (non solo) italiano. Tutti personaggi di una stessa pellicola sceneggiata (con Vincenzo Cerami), interpretata e girata in un più che palese stato di grazia dal suo protagonista, Roberto Benigni. Un’opera che – uscita vent’anni fa, una settimana esatta prima di Natale, nelle nostre sale – iniziava una sorprendente e inarrestabile marcia trionfale, punteggiata da svariati riconoscimenti e onorificenze qui e là nel globo, che avrebbe poi conosciuto il suo apice al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles nella memorabile nottata di domenica 21 marzo 1999, alla 71ª edizione dei Premi Oscar.
«Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla. Come in una favola c’è dolore e come una favola è piena di meraviglia e di felicità. […] Questa è la mia storia. Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto. Questo è stato il suo regalo per me»: così la voce di Giosuè adulto (quella familiare di Omero Antonutti) accoglie e infine saluta gli spettatori di La vita è bella nella versione lievemente “asciugata” (119 minuti) da Benigni medesimo su richiesta della potente Miramax dei controversi fratelli Weinstein prima dell’approdo del film sul mercato internazionale (vale a dire prima della sua presentazione in concorso alla 51ª edizione del Festival di Cannes, domenica 17 maggio 1998) rispetto a quella distribuita con grandissimo successo in Italia (124 minuti) e alla quale qui si intende fare riferimento.
Un’edizione, quella originale, che alla fine dello scorso mese di ottobre, proprio in occasione del ventesimo anniversario, è stata riproposta al pubblico italiano, anche se unicamente per il mercato dell’home video. Nella presentazione posta in apertura del testo della sceneggiatura originale (Einaudi, 1998), ovvero nella raccolta di dichiarazioni fatte a voce quando richiesto di cosa avesse da dire sul film in lavorazione, Benigni afferma che La vita è bella è «[u]na storia in bilico tra la lacrima e il riso. […] E perché, direte voi, far ridere di una cosa tanto tragica, del massimo orrore del secolo? Ma perché questa è una storia sdrammatica, un film sdrammatico. Perché la vita è bella, e anche nell’orrore c’è il germe della speranza, c’è qualcosa che resiste a tutto, a ogni distruzione. […] Ci interessava di più raccontare l’emozione che vive una famiglia divisa traumaticamente in due piuttosto che i dettagli della follia del nazismo. E poi chi l’ha detto che sono orrori solo del nazismo? […] Nel film poi gli orrori non si vedono, perché l’orrore più lo si immagina e peggio è […]. Bastano degli accenni per far sentire che nell’aria c’è un orco, come nei racconti che ci facevano paura da bambini. […] Il padre fa una fatica immensa, deve costruire una cattedrale gotica per convincere il figlio che il campo dove si trovano è un posto da ridere mentre intorno ci sono camere a gas, forni crematori e cumuli di cadaveri e si fanno bottoni, saponi e fermacarte con le persone. L’orrore del lager è così grande da sembrare finto; del resto il paradosso, l’incredibile sono nella realtà. […] [C]erte cose che a forza di nominarle si sono a volte un po’ consumate, come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili».
Il 27 marzo scorso, in occasione della 62ª edizione dei David di Donatello, a Benigni è stato assegnato un premio speciale, e quella sera, citando proprio questa sua opera, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto così sottolineare, durante il suo intervento, l’importanza della settima arte (anche) per la creazione di una sana coscienza collettiva: «Stasera verrà premiato, per la carriera, Roberto Benigni. […] Rispetto a quel che il cinema può fare per il costume del nostro Paese, per la sua qualità di vita, vorrei ricordare una battuta del film La vita è bella, quando il piccolo Giosuè mostra il suo stupore di fronte ad un cartello assurdo, quello con la scritta ‘Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani’. Il padre, per confortarlo, gli dice: “Domani mettiamo anche noi un cartello ‘Vietato l’ingresso ai ragni e ai Visigoti'”. Quella battuta, rispetto all’ottusa ferocia dell’antisemitismo e del razzismo, ha fatto di più di quanto i pur necessari discorsi e le celebrazioni possano fare. E questo può fare il cinema, ed è molto importante che lo faccia».
Un’ideale compito dell’arte in genere cui, in conclusione, vorremmo ulteriormente accennare attraverso un aneddoto citato da Benigni stesso durante la conferenza stampa a Cannes per la presentazione della pellicola (che ebbe dal pubblico presente in sala applausi continui sia durante che dopo la proiezione): «Ci sono uomini e film che mi ricordano le parole dello scrittore russo Leskov, formatosi a contatto con i contadini. Degli uomini dovevano trasportare un tronco ma non riuscivano a sollevarlo. Allora uno di loro decise di salirvi e cominciò a cantare: pur con una forza in meno e un peso in più, gli altri riuscirono a trasportare l’albero, portandolo alla meta». Al pari dell’improvviso levarsi di quell’inaspettata voce, questo film rappresenta una necessaria e commovente poesia elevata all’uomo «vivente»: vent’anni dopo, tra vite belle, morti degne e salme reali, sentiamo più che mai il bisogno di un qualche testimone che ce lo mostri e ricordi.