Compie oggi cinquant’anni un film di culto della generazione dei contestatori sessantottini, che comunque ebbe grande e duraturo successo presso tutto il pubblico. Uno dei più conosciuti della storia, al netto dell’ultima generazione di spettatori, la quale è cresciuta con un immaginario collettivo completamente resettato – come quello di un androide replicante – sulla superficie multicolore del web, sui reality dai divi tatuati (specchio del regresso socio-culturale: i tatuaggi se li facevano i primitivi perché non avevano altro su cui scrivere, perciò detti anche “tribali”) e sulle serie tv apocalittiche. Il Laureato (The Graduate) di Mike Nichols, con Dustin Hoffman e Katharine Ross, usciva infatti in anteprima nelle sale di Los Angeles e di New York il 21 dicembre 1967. 



Tratto dall’omonimo romanzo di Charles Webb, il film è una commedia moderna, che in forma apparentemente leggera tratta argomenti generazionali, come la difficoltà di comunicazione tra genitori e figli, le incertezze del passaggio all’età pienamente adulta, le scelte da compiere su quella soglia, descritta come un caldo assolato agosto da attraversare senza farsi troppo male – non certo un’oscura Linea d’Ombra come in Joseph Conrad. Piuttosto un racconto sospeso, che comunica la sensazione, evidentemente nell’aria durante la lavorazione del film (svoltasi dal marzo all’agosto del 1967 sulla costa ovest degli Usa), che stia per succedere qualcosa di grosso, come di una brace che cova sotto la cenere, o una catastrofe imminente. 



Il titolo italiano del film è traduzione impropria dell’originale, cosa però dovuta alle differenze sostanziali tra il nostro sistema scolastico e quello americano. Il graduate è un diplomato alla “Graduate School”, appunto, che è un grado intermedio tra le superiori come le conosciamo in Italia e l’università. Infatti il protagonista Benjamin ha appena compiuto vent’anni, ha terminato il ciclo di preparazione al College, si trova quindi nell’estate delle scelte adulte: il film lo coglie in questa terra di nessuno, da qui trae tutto il suo intreccio, in verità abbastanza semplice. Benjamin viene prima sedotto dalla matura ma non troppo Mrs. Robinson, amica dei genitori, poi si innamora follemente della di lei figlia Elaine, dalla quale viene allontanato fino a che riesce, nel celebre finale, a rapirla direttamente dall’altare nuziale, mentre sta sposando un insignificante wasp. 



Tutto ruota attorno a questa lineare traccia narrativa. Il testo però si compone di molto altro: i silenzi distesi, la pioggia e la piscina come simboli di attesa e rigenerazione, le canzoni indimenticabili di Simon & Garfunkel che ben si combinano con le immagini, la notevole interpretazione sia di Dustin Hoffman che di Anne Bancroft, i quali, nonostante i soli sei anni di differenza anagrafica, conferiscono piena e maliziosa credibilità ai loro personaggi, rispettivamente di venti e quarant’anni nella finzione scenica. 

Per lo più datato, secondo parametri sociali odierni, Il Laureato ha comunque mantenuto una forte carica di fascino empatico, soprattutto perché ha saputo cogliere lo spirito di ribellione che cresceva nelle generazioni più giovani di allora, risultando in tal senso il prezioso documento di un’epoca. Il cinema è anche un testimone del suo tempo, compreso quello di prevalente taglio narrativo di intrattenimento. Riveste comunque il ruolo di importante e spassionato documento filmato, cosa che si può dire oggi, per esempio, anche della grande stagione della commedia all’italiana. 

Pochi ricordano oggi il premio Oscar alla regia, di più si rammentano le scene principali, rimaste celebri anche perché citate in altri film, o parodiate, o riprese più volte in opere di circuiti culturali e mediali diversi o minori rispetto al cinema, come i disegni animati o il teatro (in Italia). Troviamo infatti la scena della chiesa citata nelle serie animate de I Simpson e de I Griffin, e parodiata anche dalla serie tv Orange Road; la scena iniziale all’aeroporto rifatta da Tarantino (guarda caso) all’inizio del suo Jackie Brown (1996); battute del film inserite/citate/adattate in vari altri prodotti filmici, come per esempio nella serie tv britannica Doctor Who; Dustin Hoffman che compare in un cameo ne L’Amore Non Va in Vacanza (Nancy Meyers, 2006) proprio mentre i protagonisti discutono de Il Laureato. La già celebrata sequenza finale con il rapimento in chiesa si becca perfino una citazione nella serie di telefilm della Rai Giandomenico Fracchia (1975), con Paolo Villaggio, con tanto di musiche originali in sottofondo (la bellissima The Sound of Silence di Paul Simon). 

Sempre in Italia è stata realizzata una riduzione teatrale nel 2007, per la regia di Teodoro Cassano e con Giuliana De Sio nella parte di Mrs. Robinson. Tutti sintomi trans-culturali dell’endemica fama del film. E solo di recente si è saputo che la gamba femminile in primo piano sul manifesto, celebre come il film, non era di Anne Bancroft, interprete di Mrs. Robinson, ma dell’allora modella Linda Gray, poi diventata la Sue Ellen di Dallas. Ordinarie stranezze di un media, il Cinema, che fa dell’apparenza mimetica, nascosta o esibita, la sua prevalente ragion d’essere: grazie di esistere.