“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno”. Lo scriveva Tiziano Terzani, che in Asia ha vissuto per diversi anni. In effetti, l’India è un Paese intrigante, attira migliaia di turisti, incuriositi e affascinati dalla sua storia millenaria, dalla sua cultura multietnica, dalle sue abbacinanti contraddizioni. E in questi ultimi tempi la cronaca ci ha parlato spesso dell’India: la rivolta delle donne contro il divorzio istantaneo, la crisi degli incantatori di serpenti, la strategia del Governo per cambiare gli impronunciabili nomi degli aeroporti locali. E noi, alla stessa stregua di Terzani, abbiamo all’improvviso scoperto una voglia matta di… fare gli indiani, ma con profitto. Perché laggiù si possono trovare opportunità di nuovi lavori e di lauti guadagni. Come? Seguiteci.
Aeroporti. Partiamo dagli scali aerei. Con un pizzico di fantasia, immaginiamo di dover prendere un risciò (forse chiamati così perché, come in italiano – “vai, vai!” – l’ordine perentorio va scandito due volte, perciò “ri-sciò!”) che ci accompagni all’aeroporto. Siamo sicuri, dovendoci imbarcare a Guwahati, una città nello Stato nord-orientale di Assam, di riuscire a dire al conducente del risciò il nome esatto dello scalo, che in questo caso si chiama Lokpriya Gopinath Bordoloi? Oppure, da Gwalior, nel Madhaya Pradesh, come fare a raggiungere in fretta il Rajmata Vijaya Raje Scindia Airport? E se pure il Governo indiano avrebbe preso la decisione di rinominare tutti gli aeroporti, il problema esiste davvero! Dunque, è aperta la gara a chi indica nomi più facili da ricordare. Se avete una fantasia che vola alto, allora fate decollare le vostre idee (e il vostro conto in banca…)!
Baba. Il Baba è, come molti di voi sapranno, un santone indiano, fumatore di erba. In India questi guru sono un po’ come i giocolieri che incrociamo ai semafori delle nostre città. Sono, talvolta fingono, di essere degli asceti, così spillano soldi ai turisti occidentali. Ma come si diventa Baba? Ogni santone che si rispetti ha tre caratteristiche fondamentali: 1) nella sua classica posizione a braccia alzate denota un certo qual afrore, perché a differenza di tutti gli altri indiani a lavarsi nel fiume Gange non ci va ogni anno, ma solo una volta ogni dieci. Per quale motivo? Semplice, essendo furbo e istruito, sa che il Gange è uno dei fiumi più inquinati al mondo e che le sue acque sono molto… gangerogene; 2) il santone doc è tale solo se ha la baba, acronimo di “barba bavosa”; 3) il santone vero fa “om” perché masculo è, cioè non è una “don”. Ma tutto questo non c’entra niente con il business. Come si fanno allora le rupie, cioè i danè, con i santoni? Ancora più semplice: vendendo agli angoli delle strade il tipico dolce che non mancano di rifilare all’ingenuo turista: il babà alla bababietola.
Saperas. Chi sono? Un’antica, e prospera, tribù di incantatori di serpenti, abili nel cacciare anche i rettili più pericolosi e nel farli poi danzare di fronte a folle di curiosi al suono di un flauto. Gli incantatori di serpenti hanno sempre goduto di una considerazione speciale tra gli indù. Ma oggi – vuoi le sempre più forti spinte ambientaliste, vuoi la crisi economica che ha fatto schizzare alle stelle i costi di cesti di vimini e di flauti, vuoi perché i serpenti si sono tecnologicamente evoluti e la musica, pur essendo sordi, amano ascoltarla con le cuffie – questa antica professione è in crisi. E molti Saperas sono rimasti senza lavoro, cadendo così in un profondo stato di depressione. Ma come trasformare la situazione in business? Facile, inventandosi un’agenzia che si faccia carico dei loro problemi, stipulando una vantaggiosa (per le nostre tasche, ovviamente) convenzione con il Governo indiano a favore di questa categoria di lavoratori, tramite sedute psicanalitiche e di autocoscienza collettive, corsi di mutuo e yoga. Promuovendo una kermesse annuale che raduni tutti gli incantatori di serpenti indiani. Il titolo lo prendiamo in prestito dalla cesta che contiene i simpatici rettili: Meeting di Vimini. Affare fatto, affare d’incanto!
Talaq. Per una strana usanza in voga da queste parti, è sufficiente che il marito pronunci tre volte “talaq” di fronte alla moglie per ottenere un divorzio legale e immediato, secondo un’interpretazione della legge islamica che non è accettata in molti altri Paesi musulmani. Perciò l’idea sarebbe quella di proporre al Governo indiano (naturalmente dopo un lauto compenso) la pubblicazione di un “Talaqqario” (o Tariffario ufficiale del talaq), nel quale codificare in sintesi (e a beneficio di tutte le signore indiane e dei loro burberi mariti) tutte quelle situazioni in cui tra lui e lei non dovresti proprio metterci il dito, perché ci pensa – appunto – il Talaqqario. Il sistema verrebbe quasi preso in prestito dalle norme arbitrali del calcio. Meglio qualche esempio: camicia stirata male? Un talaq. Cena con la solita minestrina riscaldata? Un talaq e mezzo. Serata a quattro con la migliore amica di lei, fidanzata con uno simpatico come Salvini quando parla degli arabi e polemico come Sgarbi intervistato dalle Iene? Talaq talaq. Lei vorrebbe andare al cinema e impedire la visione di Atlético de Kolkata (Calcutta) e Kerala Blasters Football Club (Kochi)? Eeeh, allora è la fine: talaq talaq talaq!
Insomma, una sorta di sistema di ammonizioni, il cui richiamo di un talaq sommato a un’ammonizione da due talaq, comporterebbe il divorzio immediato (con o senza possibilità di sporgere reclamo?). Troppo difficile? Anche noi, che pure l’abbiamo ideato, non ci stiamo capendo un talaq!