Che cos’è davvero capace di cambiare il mondo? Che cos’è veramente incidente nella storia, fino al punto di essere capace di cambiarne le sorti? Sono queste le domande che emergono dalla visione di La battaglia di Hacksaw Ridge, ultima pellicola di Mel Gibson in cui il regista statunitense mette sul grande schermo la storia vera di Desmond Doss, primo obiettore di coscienza della storia dell’esercito americano, un giovane ragazzo che decide di andare in guerra per servire il proprio Paese senza imbracciare arma e con il fermo proposito di non uccidere.



Un’impresa apparentemente folle, senza alcuna possibilità di riuscita, ma come dirà lo stesso Doss alla corte militare che cercava un pretesto per rigettare il suo arruolamento volontario: “Occorre qualcuno che rimetta insieme qualche pezzo del mondo, mentre tutti sono così intenti a farlo a pezzi”. È questa l’urgenza che Doss, baldanzoso ragazzo della Virginia, avverte per sé: andare in guerra e servire il proprio Paese da medico, salvando uomini. E attorno alla vicenda di questo ragazzo si costruisce l’impianto narrativo di quest’ultimo lavoro di Gibson, in cui si intrecciano la violenza cruda, rivoltante, della guerra e la resistenza granitica di quel filo di umanità, di compassione senza riserve per l’uomo, di cui Desmond Doss si fa carico.



L’ardore ideale del ragazzo si trova subito a fare i conti con il duro addestramento del campo militare, l’avversità del sergente Howell (un ottimo Vince Vaughn) e le violenze dei propri compagni di unità provocati dalla scelta apparentemente incomprensibile di Doss. Il ragazzo vacilla e dalle poltrone del cinema verrebbe voglia di urlargli di raccogliere le sue cose e tornare nella tranquillità della propria cittadina, dove ad aspettarlo c’è Dorothy, una splendida infermiera con la quale era appena iniziata una storia d’amore. Eppure Doss va avanti, sorretto solamente da due armi: la piccola Bibbia regalatagli da Dorothy e una foto della ragazza come segnalibro; la certezza della fede (e quindi della propria vocazione) e gli occhi della ragazza che ama, riverbero di quell’amore più grande, l’unico amore che davvero può sostenerlo in quell’impresa, un amore che dà tutto e nulla chiede in cambio.



Il giovane Desmond, nonostante la sorprendente forza d’animo contenuta in quel corpo gracilissimo, è sul punto di cedere; nessun uomo sarebbe capace di affrontare una tale impresa da solo. Il punto di svolta, dunque, non è un appello alla volontà, un irrigidimento ostinato sulle proprie posizioni, ma è un atto di amore: la visita di Dorothy. La giovane ragazza non comprende le ragioni di Doss e in cuor suo desidererebbe che il compagno tornasse a casa, eppure il suo abbraccio senza riserve permette a Doss di andare avanti. È solo quell’abbraccio di condivisione totale, qualsiasi fosse stata la scelta, che consente al ragazzo di accettare il compito al quale si sentiva chiamato.

Nella seconda parte del film c’è l’orrore crudo della guerra nella tragica battaglia di Okinawa, della quale Mel Gibson non ci risparmia nulla: i corpi squarciati dei soldati, il terrore, i commilitoni che avanzano sui cadaveri, un inferno in cui ogni frammento di umanità sembra destinato miseramente a soccombere, così come l’impeto di Doss. Ma è proprio nel momento più tragico, quando la vita mette alle strette, che viene fuori che cosa nella vita è davvero capace di resistere.

Quel ragazzo fragile e disarmato, senza scaltrezza o alcuna dote apparente per opporsi alla brutalità della guerra, rimane in piedi. Sotto le bombe e la violenza senza sconti dei giapponesi spende fino all’ultima forza residua per soccorrere i propri compagni ridotti in situazioni perlopiù disperate; ma ogni voce, ogni flebile respiro è motivo per muoversi sotto il fuoco nemico e continuare a salvare, ostinatamente. Da solo, mentre i superstiti del reggimento avevano battuto in ritirata, il giovane Desmond Doss riesce a portare in salvo ben settantacinque soldati americani. Questo ci dice la storia.

Così nella notte fonda di Hacksaw Ridge c’è spazio anche per l’amicizia con Smitty Riker, uno dei compagni di unità che più di tutti aveva osteggiato la scelta di Doss di andare in trincea non usando armi. In quell’inferno, tra l’odore di polvere da sparo e il rumore dei topi che assalgono i resti dei cadaveri, Smitty deve riconoscere che c’è in quel ragazzo qualcosa di straordinario. Che la fede brandita da Doss e messa alla berlina dallo stesso Smitty e compagni al campo militare, non è l’irragionevole utopia di un ragazzo ingenuo, un po’ sognatore, ma è invece qualcosa di incrollabile capace di sostenere l’uomo anche nell’atrocità disumana della guerra. È così che Doss conquista pian piano la credibilità dei suoi compagni di avventura, del sergente Howell, del capitano Glover, fino al punto che il reggimento non vuole più tornare al fronte senza Doss: non si entra e non si resiste all’inferno senza uno sguardo di certezza e amore così grande su di sé, senza uno sguardo di vera passione per l’uomo, disposto a morire per ogni brandello di umanità.

Il film di Mel Gibson è sempre molto equilibrato, magistralmente diretto, e non scade mai in una retorica pacifista, o patriottica (rischio frequente nei lavori del regista americano). La narrazione è asciutta, minimale, e il coinvolgimento emotivo dello spettatore è conquistato dalla potenza dell’immagine (fotografia straordinaria), dalla più banale (l’incontro tra Dorothy e Desmond, la cena a casa Doss in cui il fratello del protagonista decide di arruolarsi) alle più drammatiche sequenze del macello di carne al fronte. Anche l’intransigenza di Doss, che a tratti può sembrare irragionevole e fuori dal mondo, in realtà è il punto infuocato che dà linfa al film, che mantiene alta la tensione di ogni passaggio e soprattutto sfida lo spettatore nel suo intimo: “io cosa farei se fossi al suo posto?”. Ma soprattutto: “cosa faccio nella mia battaglia quotidiana? In che cosa credo? Per che cosa sono disposto a spendere la vita?”. Domande che nessuno di noi può eludere, perché nessuno di noi può fare a meno di avvertire l’urgenza che il pezzo di realtà su cui ogni giorno opera, quel campo di battaglia che è la vita, quel minuscolo spazio che occupiamo possano servire qualcosa di grande, per sé e per il mondo.