Beata ignoranza è il nuovo film in cui si possono ritrovare due grandi attori, e amici, che negli ultimi tempi hanno regalato al pubblico italiano ottime pellicole, soprattutto invitandolo a ragionare attraverso la sequenza più o meno comica delle loro disavventure. Si sta parlando di Marco Giallini, attore amato da quasi tutta la platea italiana, basti pensare all’ultimo successo nei panni di Rocco Schiavone, e di Alessandro Gassmann, che nel tempo è riuscito a ritagliarsi un posto dignitoso tra gli attori comici italiani. I due hanno recitato assieme in un recente film intitolato Se Dio vuole, dove sono riusciti a toccare temi ostici come la vocazione senza scadere in un bigottismo antico o in una fastidiosa faciloneria. Non si può quindi che entrare in sala a vedere un film che li rivede assieme avendo alte aspettative. Sembra giusto desiderare, anzi pretendere forse, che la loro storia faccia ridere parecchio, ma al tempo stesso inviti alla riflessione e offra spunti per la vita quotidiana. 



Tutta questa aspettativa che si avrà mentre si entra nel cinema, si schianterà però con l’esperienza reale che si andrà a fare e che è racchiusa nel famoso verso dantesco: “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”. Chi non seguirà il suggerimento, infatti, si troverà in un vortice di scene tagliate e incastonate quasi a caso, dove il dubbio che la regia abbia effettuato il montaggio a caso è seriamente venuto a più d’uno.



In mezzo al gorgo di scene sconclusionate si fa fatica a capire che i protagonisti sono due professori di liceo agli antipodi che si ritrovano per caso a insegnare nella stessa scuola e che hanno un conto in sospeso con una loro vecchia fiamma che divenne moglie di Ernesto, interpretato da Giallini, dopo essersi fatta mettere incinta da Filippo, interpretato dal bel Gassmann (piccolo spoiler).

Con una scusa banale il regista, Massimiliano Bruno, fa litigare i due professori riguardo ai loro differenti stili di vita e di educazione della classe. Giallini, che interpreta un professore conservatore, infatti non usa internet e chiama con un vecchio Nokia del ’95, mentre Filippo è un vorace utilizzatore dei social, con ben cinquemila followers e addirittura un’app inventata da lui con cui fa lezione di matematica.



In mezzo a questa sfida surreale spunta fuori Nina, abbandonata da Ernesto dopo che aveva scoperto che in realtà era figlia di Filippo. È proprio questa ragazza a convincere i due a trasformare il loro litigio avvenuto in classe nella base di un documentario sull’utilizzo dei social che avrebbe poi venduto, non si sa come, a dei misteriosi americani. Con il proseguire delle scene lo spettatore comprende che è salito su un treno che ha come tappe la noia e scene scontate che non vale nemmeno la pena di spoilerare.

Nonostante qualche guizzo di battute simpatiche di Giallini con il suo romanaccio che ci ha fatto innamorare in tante altre pellicole, il film purtroppo discende sempre di più mostrando alcune sequenze surreali. Un paradosso che si ripete, ad esempio, è quello di costruire scene in cui subito si capisce come andrà a finire la vicenda, per poi volerla per forza concludere tentando di fare un colpo di scena. Delle due l’una: o si costruiscono colpi di scena o si procede con una storia semplice e godibile. Oppure è da ritenere retorica e quasi fastidiosa la scena in cui Ernesto parla con la fotografia della moglie sulla lapide, che ha il volto di Carolina Crescentini, che risulta stucchevole fin dall’inizio, che si anima all’interno della piccola cornice fotografica.

In breve la storia parla di temi che sono sicuramente interessanti, come l’uso dei social, ma lo fa in maniera non originale. Si potrebbe dire che è un caso di classico click baiting giusto per rimanere in tema, dove si sceglie un tema caldo per avere visibilità senza offrire però nessun contenuto serio all’interno del video. Per carità, a proposito del sopra citato Dante, non si parlerà in questo testo del tentativo retorico del regista di affrontare il tema della paternità. Gli unici a salvarsi sono i diversi attori di secondo piano che regalano qualche risata e che fanno intuire che il problema non è tanto il contenuto o gli attori, ma la modalità narrativa.

Un accorato appello quindi scatta in maniera istintiva: si invita cortesemente il regista Massimiliano Bruno a tornare a fare il suo mestiere, quello di autore di film di successo, perché prendere un purosangue come Giallini e tanti altri attori più che capaci di recitare e fare una strage di un’intera sala cinematografica è segno evidente che non è il suo mestiere. 

Vi è però un grande pregio che ha questo film, va detto. Si tratta del titolo, che essendo un’espressione idiomatica è fatta apposta per essere velocemente dimenticata da chi lo ascolta, essendo un accostamento di termini antitetici. Per questo, forse, il regista non finirà in un girone dantesco troppo profondo.