L’elemento autobiografico nel cinema di Ferzan Ozpetek è sempre stato sottinteso, evidente, ma nascosto nei dettagli. Se dopo 20 anni di carriera, il regista sente la necessità di tornare a girare in Turchia, terra natale, forse ha voglia di mettere in scena più direttamente i suoi sentimenti, la sua vita (“Gli scrittori attraverso i personaggi parlano sempre di loro stessi”, si dice nel film): e così sulla scorta di un libro eponimo nasce Rosso Istanbul, nuovo film del regista italo-turco. 



La trama vede protagonista un editor, apolide, fuggito dalla Turchia per vivere in Europa, che torna a Istanbul per aiutare un suo amico, regista di successo, a completare la propria autobiografia; ma una volta arrivato vede l’amico scomparire misteriosamente, lasciandolo a dover gestire i fili pendenti della sua vita, come una donna bellissima e distante, un altro amico poco raccomandabile, una famiglia non facile. 



Ozpetek scrive con Gianni Romoli e Valia Santella un dramma raffinato e intinto in una vaga atmosfera noir che modifica nella struttura e nei meccanismi narrativi il romanzo, dando l’impressione di aver mescolato elementi tipici del regista e situazioni relativamente nuove o perlomeno rivestite di altri abiti. Come molti film del regista, Rosso Istanbul è un’opera di fantasmi e presenze, di persone che scompaiono ma che restano sospese dentro gli ambienti e dentro i personaggi che restano, come se i ricordi, i familiari e gli amici, i luoghi in cui abbiamo vissuto fossero una memoria che continua con cui è impossibile fare i conti. 



Ozpetek tenta anche di aggiungerci un elemento politico – a lui pochissimo conforme – per non dare l’impressione di un’Istanbul distante, invisibile, irreale, ma il vero limite del suo film è nell’ispirazione: partire da un proprio romanzo e da un ritorno così atteso e forse tormentato la limita, la ingabbia, rende questo un film “à la” Ozpetek più che “di” Ozpetek. 

A partire da una messinscena piatta, spenta, in cui gli insistiti primissimi piani spengono qualsiasi forza delle scene, dei décor, dei luoghi reali della città, fino a dialoghi poco credibili (forse, sulla carta funzionavano meglio) che il brutto doppiaggio rende ancora più enfatici, Rosso Istanbul è un film tanto cercato e atteso dal regista da non riuscire a venire fuori, come una festa la cui vigilia è stata troppo cercata e mitizzata: ne è prova il finale, o meglio i finali che Ozpetek procrastina stancamente per gli ultimi 15 o 20 minuti in attesa di trovare quello giusto. 

La leggerezza, anche frivola o inopportuna ma comunicativa con lo spettatore, delle sue opere migliori, anche quelle drammatiche, lascia il passo a un tocco narrativo tanto pesante quanto incerto e a scelte di stile e regia molto deludenti (come le musiche spesso fiore all’occhiello dei suoi film, non qui) che attori imbambolati non ravvivano mai. Manca a Rosso Istanbul quella scintilla di vitalità che dava un senso anche ai suoi film più brutti, come se il dover tornare a casa, a raccontare di se stesso scisso in due personaggi, lo avesse frenato. E il rosso della città fosse il colore della paura interiore e non della passione.