Joe Coughlin, figlio del capo della Polizia di Boston, torna dalla Prima guerra mondiale per tuffarsi nella cruenta guerra tra la mafia italiana e la mafia irlandese, negli anni del Proibizionismo. Joe non sembra fatto per la legalità, né per piegare la testa davanti a un padrone, sia esso un comandante dei Marines o un gangster di città, da cui infatti cerca di rimanere lontano. Ma la sua passione lo tiene legato alla moglie di un boss e le conseguenze saranno inevitabili: rischierà la vita per lei e finirà malconcio in galera.



Da qui verrà liberato, con l’aiuto del padre, per immischiarsi in una nuova vicenda di illegalità, tra alcol, banditi, fanatici religiosi e gioco d’azzardo, al servizio di un boss per vendetta e all’inseguimento di un’altra donna, che vorrà proteggere con l’aiuto delle armi e di una potente e fedele struttura criminale.



Cosa ancora si può chiedere a una storia di gangster, dopo Scorsese, Leone, Coppola o De Palma? L’impresa sembra essere ardua già in partenza, dovendosi misurare con un lungo elenco di capolavori di genere. “La legge della notte”, romanzo di Dennis Lehane, finisce nelle mani di Affleck che prova a trarne un film, all’altezza dei “Padri” e del clamoroso successo editoriale, ma il risultato è davvero modesto.

Se la storia avesse avuto un potenziale, lo avrebbe forse potuto esprimere la coppia Scorsese&DiCaprio (quest’ultimo in possesso dei diritti del romanzo e coproduttore del film di Affleck). Non certo il buon Ben che, a eccezione dell’inaspettato Argo, non sembra aver lasciato traccia memorabile di sé negli annali del cinema. La legge della notte si apprezza solo e unicamente per la sua ricostruzione storica, che ci riporta nei violenti anni del Proibizionismo, popolati di mafie, belle donne e brutte storie.



Come dichiara lo stesso Affleck, esso vuole essere un omaggio a quel cinema, di cui riporta rispettosamente i cliché. Ma vi è l’omaggio, e poco altro. La storia si dibatte nell’ordinario, provando a celebrarsi originale nella natura del protagonista, troppo buono per essere un gangster, troppo cattivo per essere un baciamano. Un cavaliere cuore d’oro e di leone, leader di un manipolo di delinquenti e dolce compagno di vita, inebriato d’amore e sensibilità. Un ritratto improbabile, espresso dall’inespressivo volto immobile di Affleck, che non brilla né alla regia, né alla guida del suo clan.

Tutto attorno a lui, tra padrini italiani e gangster irlandesi, si consumano battaglie per il Regno, che non risparmiano violenza, crudeltà, tradimenti e inseguimenti. Ed è proprio un inseguimento, a bordo di auto “a forma di boss” che si prendono a sportellate e pallottoni, a lasciare il segno in un’ampia landa di banalità. 

I personaggi seguono il copione, tridimensionali nella loro fisicità, bidimensionali nella loro rappresentazione interiore. Il copione segue Affleck, al centro della storia, degli eventi, delle relazioni. Gangster gentile, campione di strategia, gran buongustaio di belle donne, capaci di cambiare il corso della sua vivace esistenza.

Un intreccio di delinquenza negli anni del proibizionismo che si incrocia con il gioco d’azzardo, il Ku Klux Klan, il razzismo di razza, nascita e religione. La legge della notte scivola via, come un film senza personalità di cui non si sentiva il bisogno.