La recente uscita nelle sale di Silence (id., 2016), l’ultimo, densissimo lungometraggio del quasi settantacinquenne Martin Scorsese, ha fatto ricircolare in alcune recensioni anche oltreoceano nomi di registi che si era persa l’abitudine di sentire citati. Ad esempio, Ian Freer (su “Empire” del 10 dicembre 2016) apriva sulla «scottante franchezza» dell’opera e proseguiva affermando che «[s]e il film è imbevuto del cinema giapponese di Mizoguchi e Kurosawa, mostra anche forti legami con i pesi massimi europei. È uno straordinario film americano che può rivaleggiare intellettualmente con Ingmar Bergman». In effetti la macchina da presa scorsesiana pare dimentica (ma non nel finale, fortunatamente) di alcuni dei virtuosismi che quasi ne rappresentano la firma e ai quali ci aveva abituati negli ultimi trent’anni, gettandosi nel confronto – non certo fuori luogo visto anche il tema affrontato – con la rigorosità delle inquadrature su fatti, volti e paesaggi del maestro svedese (con il medesimo tormento, ma con molta più fiducia nella Grazia, viene da aggiungere…).
Quanto all’atmosfera più generale, ci sia concesso di fare anche un altro nome, quello di un cosmopolita che – fatto non certo raro ma significativo nel caso specifico – è riuscito a dividersi tra Europa (Vienna, Parigi, Berlino prima; Spagna e Inghilterra poi), Australia e America (Stati Uniti e Messico). «L’onestà intellettuale di un tecnico – un regista vero è sempre un tecnico – che non presume di essere un uomo di cultura e che al cinema offre una solida umanità, il rispetto delle proporzioni, un impegno sommesso verso i sentimenti»: questo l’incipit della sintetica scheda dedicata da Fernaldo Di Giammatteo nel suo agilissimo “Dizionario del cinema. Cento grandi registi” al cineasta austriaco Fred Zinnemann, nato a Vienna (nell’allora Impero asburgico) il 29 aprile 1907 e scomparso a Londra per un attacco di cuore vent’anni fa, il 14 marzo 1997.
Di lui – già attivo intorno alla macchina da presa come assistente operatore a partire dal 1929, dopo aver frequentato un corso di diciotto mesi alla “École Technique de Cinématographie” di Parigi per diventare direttore della fotografia, e poi come regista e produttore fino al 1982, anno del suo ultimo film, Cinque giorni una estate (Five Days One Summer) – si ricordano volentieri i titoli a suo tempo più celebrati e quindi più conosciuti presso il grande pubblico: Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952, quattro Oscar), Da qui all’eternità (From Here to Eternity, 1953, otto Oscar, tra cui migliori film, regia, attore e attrice non protagonisti, sceneggiatura e fotografia in bianco e nero) e Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons, 1966, sei Oscar, tra cui migliori film, regia, attore protagonista, sceneggiatura non originale e fotografia a colori). Altri invece, come Odissea tragica (The Search, 1948), La storia di una monaca (The Nun’s Story, 1959) e Il giorno dello sciacallo (The Day of the Jackal, 1973) sono scivolati in secondo piano con il passare del tempo, ma meriterebbero – tra i suoi film ancora reperibili – una visione nemmeno troppo fugace in quanto racchiudono (forse anche più dei “fratelli maggiori” appena citati) aspetti della nascosta grandezza (per alcuni puro artigianato, anche se di qualità) e della raffinata sensibilità (per altri semplice calligrafismo, anche se di livello) di questo autore.
«Non credo all’eroismo in sé. Penso invece che la coscienza sia un elemento di estremo interesse, intorno alla quale si possono imbastire ottimi film. Non parlo di me. Dico soltanto che alcuni dei maggiori film della storia del cinema trattavano problemi di carattere interiore. Ricordate la Giovanna d’Arco di Dreyer? Un grandissimo film, secondo me, uno dei più grandi. Credo che una regola fondamentale del cinema sia questa: non si deve fotografare un’azione, bensì la reazione individuale all’azione; si deve fotografare quello che il personaggio afferra dell’azione, quello che ne pensa, il modo come reagisce ai fatti. […] L’azione in sé non presenta alcun interesse».
Si prendano ad esempio due sequenze di Odissea tragica, ambientato in una Germania per lo più ancora in macerie che tenta faticosamente di lasciarsi alle spalle follie e violenze della Seconda guerra mondiale: la prima («Cercherà di scappare» «È un rischio da correre») descrive l’iniziale tentativo dell’ingegnere militare statunitense Ralph Stevenson (un Montgomery Clift al suo esordio sul grande schermo) di conquistarsi la fiducia di Karel Malik (Ivan Jandl, Oscar speciale per la sua eccezionale performance di attore bambino), giovanissimo profugo cecoslovacco reduce da Auschwitz. La seconda («Jim, vai con gli altri ragazzi») ci porta al termine della pellicola, quando si è ormai certi di essere riusciti a far trovare nello stesso luogo madre e figlio: ma, nelle mani di uno come Zinnemann, il loro incontro finale è qualcosa di decisamente meno scontato del previsto.
Oppure si consideri l’incipit di La storia di una monaca. La giovane belga Gabrielle Van Der Mal (Audrey Hepburn – a detta sua e della critica – in uno dei suoi migliori ruoli, propostole dopo il rifiuto di Ingrid Bergman) sta lasciando casa e famigliari per entrare in convento: una camera da letto, un crocifisso all’interno di una valigia pronta per essere chiusa, una serie di anelli sfilati per essere posati su di una carta da lettera con scritto «prego restituire a Jean» (dove già si trovano la fotografia dell’uomo, un braccialetto e una penna), un orologio su una mensola a segnare materialmente il fluire del tempo e un signore attempato che in un altro ambiente della stessa abitazione accenna al pianoforte «Voi che sapete che cosa è amor…» dalle mozartiane “Nozze di Figaro”. Quindi ancora Gabrielle, che tra gli oggetti sulla scrivania si mette in tasca la penna, scende le scale (ecco un altro orologio) e si unisce alla melodia al pianoforte, prima che dall’altra persona arrivi una qualsiasi parola: «Allora, ci siamo?» «Se vogliamo andare, papà…» «Stavo aspettando te». Certo espressioni di un cinema d’altri tempi, ma che, quanto a umanità e capacità introspezione, ha ancora molto da dire.