Chi non si è perso nemmeno un episodio cinematografico degli X-Men non potrà non trovare Logan-The Wolverine quanto meno particolare e diverso dalle altre pellicole dei super-eroi Marvel. Ci troviamo nel 2029 e i mutanti sono ormai una specie in estinzione. Logan, che ha sempre il volto di Hugh Jackman, fa l’autista di limousine. Con quel che guadagna si procura medicinali per curare se stesso e Charles Xavier. Della celebre scuola per “ragazzi speciali” ormai non c’è più traccia. E il professore vive “segregato”, quasi irriconoscibile, non solo nell’aspetto, ma anche nel linguaggio.



L’atmosfera è quindi completamente diversa rispetto a quella delle fantascientifiche attrezzature e dell’ostentazione dei superpoteri straordinari dei protagonisti visti al cinema qualche anno fa. Eppure sembra che questa pellicola abbia molto da dire. A partire dal fatto che, per quanto ci si possa nascondere, arriva sempre l’imprevisto che porta a fare i conti con se stessi. In questo caso ha il volto di una bambina (una bravissima Dafne Keen, che oscilla tra l’immagine di un’amorevole creatura e quella di una “bambola assassina” senz’anima).



In un lungo viaggio on the road, verso quello che sembra un finto paradiso, a partire dal nome Eden, tra uno scontro e l’altro contro l’immancabile villain, ci si trova portati a riflettere su temi come la diversità, l’immigrazione, la paternità, ma soprattutto il senso della propria esistenza. Logan è ormai vecchio, indebolito da una malattia che sa che lo porterà alla morte, eppure capisce che c’è una ragione per smettere di nascondersi. Non sarà forse un caso che lo scontro più tosto lo avrà con un suo “alter ego”, più giovane di lui. Forse il regista, James Mangold, vuole dirci che il confronto più duro, quello che può farci più male, è quello con noi stessi. Un po’ come aveva già fatto con Wolverine – L’immortale.



Impossibile poi non notare i richiami al genere western (lo stesso Mangold ha diretto il remake di Quel treno per Yuma nel 2007), non solo per l’ambientazione del film e l’uso di armi di fuoco (nel 2029, in un film di supereroi come gli X-Men non c’è alcuna diavoleria tecnologica, se non la forse più diabolica manipolazione della vita), ma anche per un’esplicita citazione del film Il cavaliere della valle solitaria (del 1953, diretto dal premio Oscar George Stevens).

Un film crudo, anche per certe scene di violenza, che difficilmente lascerà indifferenti o con la sensazione di aver visto uno dei soliti supereroi del grande schermo.