Parziale sorpresa nella notte degli Oscar di quarant’anni fa, che allora si celebrava nella seconda quindicina di marzo. Rocky, spettacolare film sulla boxe dalla struttura semplice, scritto e interpretato dal poco più che esordiente Sylvester Stallone, allora trentenne, sbaragliava un’agguerrita concorrenza (i filmoni Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, Taxi Driver di Martin Scorsese e il buon Quinto potere di Sidney Lumet) e si aggiudicava l’Oscar per il miglior film. Completavano il suo trionfo le dorate statuette per la miglior regia (al classicista John G. Avildsen) e per il miglior montaggio. Cominciava così la leggenda, e la sequela filmica, di Rocky Balboa, il burbero pugile dal cuore tenero, col volto ebete da garzone di bottega, ma con la tenacia del perdente sull’orlo del riscatto personale e sociale.



Il primo Rocky rappresenta soprattutto l’ennesima ben calibrata parabola del mito americano del self-made man. Il protagonista (Stallone stesso) è un perdente che si riabilita cogliendo con coraggio l’occasione della vita, col sudore e la fatica del giusto. Si narra che Stallone, ispirato dal match tra il campione Muhammad Alì e il semisconosciuto Chuck Wepner del marzo 1975, abbia scritto una prima stesura del film in tre giorni, poi diventata lo script definitivo in successive migliorie, anche sollecitate dai produttori Chartoff e Winkler, che per primi hanno creduto nel progetto Rocky. Molto più di un progetto, per Stallone, il quale mette in scena – scrivendo il film – qualcosa che conosce bene, e la parziale sovrapposizione tra l’autore della storia e il suo personaggio, quel Rocky pugile italo-americano proletario, desideroso di emergere come il suo artefice e interprete, è quanto di più in linea con il suddetto mito si trovi nella Hollywood di allora, ragione non ultima del grande successo di Rocky.



Sylvester Stallone nei panni di Rocky Balboa è credibile, ci mette la faccia e l’anima, il pubblico capisce e lo ama. Inoltre, la particolare circostanza di essere candidato all’Oscar come attore protagonista e autore/sceneggiatore dello stesso film, cosa che accadde solo a grandissimi del Cinema come Charlie Chaplin e Orson Welles, trasformò in breve Stallone da attore secondario a star di prima grandezza hollywoodiana.

Come la quasi totalità dei film sportivi, anche Rocky non si sottrae – anzi, ne fa un punto interpretativo fondante – al cliché secondo cui il vincere o perdere un match (o una gara, una partita) è metafora del vincere o perdere nella vita. Sempre, in tali storie di campi da gioco, piste assolate e palestre cadenti, il perdere con onestà e coraggio, dando tutto fino all’ultima stilla di sudore, ha come contraltare l’essere vincenti nei fondamentali valori della vita. Rocky Balboa non fa eccezione. Pur perdendo il match con il campione Apollo Creed, vince, anzi trionfa su chi lo riteneva incapace, su chi gli disse “non sarai mai un campione”, conquista definitivamente l’amore e infine, cosa più importante di tutte, vince anche su se stesso.



Se pur di ricercato impianto spettacolare, il film procede gradevole, il suo racconto di taglio classico calibra con mestiere i vari passaggi, alternando i momenti intimi a quelli collettivi. Contiene almeno un paio di sequenze entrate nella storia del Cinema: l’urlo finale di Rocky dopo la sconfitta non-sconfitta, a chiamare con se l’amata Adriana; la sua corsa in tuta grigia, che termina in cima alla scalinata del Philadelphia Museum of Art sulle note del celeberrimo tema musicale Gonna Fly Now (di Bill Conti).

Quel sorprendente Oscar ci pare allora senz’altro meritato, non fosse altro che per la messa in scena di uno spettacolo onesto, ben costruito, di empatica presa sul pubblico, aspetti che non vanno mai sottovalutati. Il cinema è arte e linguaggio, ma anche spettacolo e intrattenimento, facce congenitamente inseparabili della stessa medaglia (mi si perdoni la sempiterna metafora). L’arte settima, il cinematografo, nasce nell’epoca della riproducibilità tecnica delle opere, unica tra tutte: le altre, nate molto prima, ci si son dovute adattare, costrette in alcuni casi a cambiare drasticamente pelle. Per il cinema la diatriba arte (artigianato, pezzo unico) vs. spettacolo (industria) è parte della sua natura. Le principali opere lungo tutta la sua storia assumono de facto la valenza di arte popolare molto prima che Warhol ne tracci i confini estetici e ne detti i contenuti, e Rocky ne è un illustre esempio.

Realizzato con un budget ridotto e in soli ventotto giorni di riprese, il film ebbe un clamoroso successo di pubblico, e non trascurabili apprezzamenti anche dalla critica. Visto l’immenso differenziale tra costi e ricavi prodotto, oltre all’immediata acritica (in senso buono, perché sincera) affezione del pubblico al personaggio, non potevano mancare diversi sequel. Ben cinque i film derivati della storia originaria: Rocky II (1979), Rocky III (1982), Rocky IV (1985), Rocky V (1990) e Rocky Balboa (2006), tutti diretti da Stallone tranne il IV, diretto dallo stesso regista premio Oscar del prototipo, John G. Avildsen.

Nel 2015 è stato realizzato addirittura uno spin-off, titolato Creed – Nato per Combattere, dove un anziano Rocky Balboa insegna al figlio dell’antico rivale Apollo Creed come vincere sul ring. Già il fatto che per indicare una tale operazione – prevalentemente commerciale – si usi un termine del lessico economico-aziendale la dice lunga sul valore del cinema odierno. Comunque sia, un personaggio come Rocky travalica tutti i confini, supera le definizioni, è ormai parte di un Cinema fuori dal tempo. La sua parabola, disegnata dai diversi film ricordati, riflette molto bene i meccanismi di nascita e di persistenza delle icone nella società dello spettacolo. Come direbbe simpaticamente l’ineffabile Gianni Minà: Rocky, un mito, un eroe!