Un uomo vittima di una tempesta, travolto dalle onde altissime, naufraga su un’isola deserta. La forza della natura che si manifesta nella sua forma più violenta conduce lo spettatore nel mondo de La tartaruga rossa, un film in animazione dell’olandese Michaël Dudok de Wit (The Monk and the Fish, Father and Daughter) coprodotto dallo studio Ghibli: un incipit classico per una storia che esplora il rapporto tra l’uomo e la natura, affidandosi alle immagini, ai colori, ai movimenti invece che ai dialoghi. 



Il protagonista è solo sull’isola, osservato con interesse dai granchietti che vivono sulla spiaggia, circondato da un paesaggio ancora primitivo. L’uomo è costretto a lottare per la sopravvivenza, procurandosi cibo e vestiti con ciò che l’isola offre. Esplora le scogliere e si ingegna a costruire una zattera con rami e tronchi, usando le foglie come vela. Vuole andarsene, ritornare alla civiltà.



I suoi tre tentativi di fuga, però, sono resi vani da una forza misteriosa, che distrugge l’imbarcazione di fortuna e lo costringe ogni volta a tornare sulla spiaggia e a ricominciare da capo. Sempre più frustrato, sempre più furioso. Quando scopre che il misterioso “nemico” è una tartaruga rossa, la rovescia sulla sabbia, condannandola a morte tra incubi e sensi di colpa. Eppure, qualcosa di straordinario accade. Dal guscio della testuggine emerge una donna, alla quale il protagonista deve chiedere perdono e con la quale costruisce una famiglia. Senza pronunciare una parola. 



La struttura narrativa è del tutto lineare; segue la parabola della vita umana nelle sue tappe essenziali, fino alla morte che, in questo caso, è vista come un ritorno alla natura. Lo sfondo filosofico del film, infatti, è vicino alle religioni orientali, con l’idea della comunione tra ambiente ed essere umano e la convinzione che solo nell’accettazione dello svolgersi naturale delle cose si possa trovare la serenità. 

La tartaruga, uno dei più antichi esseri viventi che camminano sulla Terra, è simbolo di longevità, di resistenza nonostante tutto. Resistenza allo tsunami che travolge l’isola, dove tuttavia la vita ricomincia da capo e la famiglia che il protagonista ha costruito si rimette in piedi e accetta il cambiamento.

Molti sono i modi in cui si può leggere questa storia, che mette in scena la vita nella sua essenzialità: un cerchio di morte e rinascita, in cui uomo e natura convivono come agli albori del mondo. Il protagonista non costruisce una capanna, né cerca una grotta: dorme sulla spiaggia, lasciando che la propria vita sia scandita dal ritmo del giorno e della notte, dal passare delle stagioni. Si potrebbe obiettare che manca il desiderio di “colonizzare” o “conquistare” l’ambiente, che non si vede l’uomo mettere alla prova le proprie capacità. Ma non è questo l’intento del film. Senza pretendere di insegnare niente, sembra però a ricordarci che siamo parte della natura e che abbiamo bisogno di trovare un equilibrio con essa, invece di sfruttarla in nome di un progresso che rischia di rivoltarsi contro chi l’ha inseguito. È un tema caro a Miyazaki, questo, come saprà bene chi conosce Princess Mononoke.

Il film di Michaël Dudok De Wit rivela in tanti piccoli dettagli l’influenza dello studio Ghibli, ma di sicuro possiede un’identità propria, a cavallo tra mondi diversi. Il minimalismo del tratto e la pulizia del disegno si accompagnano a una suggestiva colonna sonora e a un uso sapiente dei colori, che sottolineano l’alternanza tra il giorno e la notte. 

Soprattutto, con La tartaruga rossa si lascia spazio nel panorama cinematografico a un nuovo talento e a una commistione di stili che deriva da una collaborazione tra culture diverse, a servizio della semplicità.