Pittsburgh degli anni ’50, in una casetta di legno vive Troy Maxson, interpretato da un impegnato Denzel Washington, che del film è anche regista, con la sua famiglia di cui si sente profondamente responsabile: l’amata moglie Rose e i figli Lyons e Gabriel. Fin dall’inizio la storia di Barriere procede lentamente e si intuisce che la sceneggiatura non è stata pensata per i moderni ritmi frenetici del cinema d’oggi. Il film, infatti, è la trasposizione, fortemente voluta dallo stesso Washington, dell’opera teatrale “Fences” del 1983 di August Wilson, vincitrice del Premio Pulitzer per la drammaturgia.
Troy appare inizialmente come un uomo tutto d’un pezzo: lavora l’intero giorno e al venerdì consegna la paga ricevuta alla moglie. Anche se beve con l’amico di sempre Bono, che ha il volto di Stephen Henderson, ci tiene a dire alla moglie che non si ubriaca mai e che rimane sempre concentrato sull’unica sua “missione”: essere responsabile della sua famiglia, dandole un tetto sopra la testa e un piatto con cui sfamarsi.
Troy è stato un grande giocatore di baseball, ma sembra aver abbandonato del tutto i suoi sogni di gloria, perché ha compreso che in quel mondo un semplice negro come lui non avrebbe mai fatto carriera. L’apparente calma, e monotonia, che domina nella vita di Troy, che per gran parte della pellicola viene ripreso nel giardino di casa sua perché la moglie gli ha dato il compito di costruire un recinto per il cortile, viene rotta da una semplice domanda. Si tratta di un dubbio che lacera il figlio minore Gabriel che gli chiede a sorpresa: “Perché non ti sono mai piaciuto?”.
Solo a questo punto parte un doppio movimento che accende la storia che il sonnecchiante spettatore stava fino a quel momento seguendo: da una parte vi è un crescendo di Denzel che diventa sempre più convinto nella recitazione, e che risponde con rabbia al figlio che non c’è nessuna legge per cui dovrebbe piacergli e che deve essere semplicemente grato che si sfama ogni sera al suo tavolo. Dall’altra parte vi è un movimento che trascina verso il basso la stima che si ha di Troy, perché da quella risposta in poi si apre una spaccatura in quella che sembrava essere la corazza dell’uomo dalla morale perfetta.
Ecco quindi venire a galla la storia per cui in realtà il nostro protagonista aveva ormai quarant’anni quando era arrivato al livello dei professionisti del baseball e non poteva quindi far carriera, altro che colpa dei bianchi. Poi emerge che la casa in realtà è stata comprata con i soldi dati dall’esercito al fratello matto di Troy come rimborso per essere stato ferito in guerra e quel che è peggio è che poi lo stesso Troy ha sbattuto il proprio fratello in mezzo alla strada.
Via via che la storia prosegue crolla tutta la scenografia, con notevoli colpi di scena che è giusto non anticipare, costruita da Denzel ed emerge una seconda figura, quella della moglie interpretata da un’incredibile Viola Davis (vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista), che mostra come non si può essere responsabili senza amare ciò che si protegge e non si può amare senza essere disposti a perdonare.
Viola con la sua interpretazione finale tenterà nell’impresa di riabilitare suo marito di fronte ai suoi figli e a tutti gli spettatori, anche se sembrerà un’operazione impossibile. Ci riuscirà? Non si potrà comprendere la sua posizione senza riconoscere che chi ama non censura nulla dell’amato, comprese le incoerenze, per quanto grandi siano.