Negli anni 70 avevamo: Le strade di San Francisco (con un giovanissimo Michael Douglas e il celeberrimo Karl Malden, l’attore che impersonava il sacerdote nel capolavoro Fronte del porto e che aveva vinto un Oscar due anni prima interpretando sempre con Marlon Brano Un tram chiamato Desiderio); Starsky & Hutch (anche se in realtà in Italia cominciò a essere trasmesso nel 1979) e Happy Days.
Se il primo era già per un pubblico un po’ più adulto, le immagini di San Francisco furono comunque abbastanza per farci cominciare a sognare l’America, mentre il secondo ci faceva rimpiangere un’America già passata di moda, quella dei pantaloni zampa di elefante, e quella Los Angeles ci appariva contemporaneamente un mondo troppo lontano dalla nostra realtà provinciale italiana. Ma Paul Glaser e David Soul erano davvero fighi, così fuori dalle righe, da farceli sognare.
Con Happy Days invece, benché si svolgesse in un’America lontanissima e inimmaginabile, quella dei primissimi anni 60, c’eravamo dentro tutti. Andata in onda per la prima volta in America nel 1974, nel pieno del revival per quei tempi innocenti e pieni di speranza riportati alla ribalta dal film capolavoro American Graffiti uscito l’anno prima e in cui recitava anche Ron Howard, il Ricky Cunningham di Happy Days, era il naturale prosieguo di quel film.
Benché in Italia non esistessero i drive in, o i locali che anticipavano i McDonald’s come era Arnold’s, il bar punto di ritrovo della compagnia, le casette a due piani con il giardinetto, le macchine De Soto, in quel mondo ci tuffavamo dentro.
Happy Days era ambientato in quel breve momento storico compreso tra la fine della guerra in Corea e l’inizio di quella del Vietnam, quando il sogno americano era tutto ben intero: vita, amicizia, amore, feste, musica. Un mondo adolescenziale dove la classica american way of life rappresentata dalla famiglia Cunningham non era un buco dove sopprimere la gioia di vivere e sacrificare tutto al becero carrierismo, ma anzi il contrario. Howard, il padre, e la stordita Marion, la madre e i due fratelli Ricky e Joanie erano la famiglia che tutti sognavamo, sempre pronta a riprendere in modo positivo la vita nonostante accadesse quello che accadeva a tutti.
E poi ovviamente c’era Fonzie (solo mamma Marion poteva chiamarlo con il suo vero nome, Arthur Fonzarelli), il bullo dal cuore buono, il duro che sognava di essere James Dean ma che avrebbe dato la vita per i suoi amici. In quelle storie ci potevamo identificare come mai era successo a una generazione: chi scrive ricorda il tentativo, un weekend che i genitori erano via di casa, di fare come Ricky Cunningham e i suoi amici Potsie e Ralph Malph di invitare a casa delle ragazze che ci avevano promesso sarebbero venute. Come nel telefilm, io e il mio amico le stiamo ancora aspettando 40 anni dopo.
Scoprivamo il mondo con Happy Days e con esso, soprattutto, l’America, la terra promessa.
Joanie, soprannominata da Fonzie sottiletta (in americano shortcake, dolcettino) rappresentava il lato femminile. Non ci interessava molto, ma colpivano i suoi grandi occhi sempre spalancati e il sorriso travolgente. Per diversi di noi fu il primo grande amore (io preferivo le ragazze di Fonzie, in realtà).
Happy Days ti acchiappava sin dalla brillante sigla iniziale, con immagini flash di vari episodi, quella canzoncina così ottimista e incalzante, un modo di veder passare in due minuti un sogno lungo una vita. E naturalmente ti acchiappava con la sigla finale, la straordinaria Rock round the Clock di Bill Hailey, la canzone simbolo della rivoluzione rock.
Happpy Days divenne così amato e seguito che anche mio padre, che alla tv guardava solo i telegiornali o le previsioni del meteo, quando cominciava metteva giù il giornale e se lo godeva.
Quando uscì la seconda parte di American Graffiti, ancora con Ron Howard, dove quei ragazzi erano cresciuti alle prese con il matrimonio, la guerra in Vietnam, capimmo che nessun sogno resiste alle luci dell’alba della fine dell’adolescenza e ognuno andò per la sua strada, compresi gli attori di Happy Days. Se Ron Howard è diventato regista da Oscar, gli altri si sono barcamenati con comparaste varie, mantenendo però vite dignitose.
Nessuno si sarebbe aspettato che a pagare il prezzo più terribile della fine dell’adolescenza sarebbe stata sottiletta, morta di overdose due giorni fa in un motel da quattro soldi, cacciata dalla suocera dal trailer dove viveva con il marito sposato nel 1993 perché tornava a casa tutte le notti ubriaca con qualche amico raccattato nei bar. A parte qualche comparsata in serie televisive era sparita dal mondo dello spettacolo. Lei e il marito vivevano grazie ai 65mila dollari vinti con una causa che gli ex attori di Happy Days avevano intestato ai proprietari dei diritti della serie tv per mancato pagamento dei diritti sul merchandise, Cacciata di casa, Erin Moran, il suo vero nome, viveva come una vagabonda di motel in motel ubriacandosi e drogandosi sempre di più.
I suoi vecchi amici lo sapevano, non l’avevano dimenticata: Henry Wrinkler, Fonzie, a più riprese aveva cercato di riportarla nel mondo della tv. E poi c’era una associazione che si prendeva cura di lei, ma lei rifiutava l’aiuto di tutti. Non era sola, dice il presidente e avvocato Paul Petersen, sapeva di avere gente disposta ad aiutarla, ma lo rifiutava. Quale buco nero spaventoso si portasse dentro, l’ex ragazzina che aveva cominciato a recitare a 12 anni non lo saprà mai nessuno. “Erin aveva degli amici e lo sapeva” dice l’avvocato Petersen “l’abbandono non è stato il problema che l’ha condotta alla morte. La perversità della fragilità umana è alla radice di questa perdita, non il fallimento”.
Già, siamo fragili, fino a morirne. Chi poteva pensarlo allora, negli anni 70, che la realtà è anche questa.
Qualche settimana fa ha fatto il giro si internet una foto di Starsky e Hutch, oggi settantenni. L’aitante biondo David Soul su una sedia a rotelle condotta dal vecchio amico Paul Glaser (che nel corso della vita ha subito la morte di un figlio). In qualche modo erano ancora loro, invece che pronti a scattare sulla fiammante Ford Gran Torino del polizia, mestamente trascinando l’uno l’altro, con tenera consapevolezza che i glory days prima o poi finiscono per tutti, ma con serena accettazione e sostegno reciproco.
Adesso sono finiti anche gli happy days. “Adesso Dio è con te Erin” ha scritto Scott Baio, che con lei recitò anche dopo Happy Days. “E’ nelle mani di Dio” ha commentato Potsie. “Erin, finalmente hai la pace che hai sempre cercato” è stato invece l’addio di Fonzie.
In modo bizzarro, come solo la vita sa essere, da pochi giorni un canale satellitare ha ricominciato a mandare in onda la serie Happy Days. C’è sottiletta che sorride, con i suoi occhi spalancati alla vita e che alla vita si sono chiusi troppo presto. Grazie per averci aiutati a crescere in modo migliore, per noi che non esistevano internet, video giochi, realtà virtuale: ci hai fatto gustare la bellezza dell’amicizia.