Ciò che avvenne in Italia fra la fine degli anni ’70 e gli anni ’90, è rimasto nella memoria degli italiani come lo scandalo del sangue infetto. E’ infatti a partire dal 1979 che migliaia e migliaia di malati italiani vengono contagiati a causa di sangue infetto ed emoderivati dovuti a sacche di plasma infetto dal virus dell’HIV e dell’epatite C. Uno scandalo che ha vissuto lo scorso aprile la condanna del Ministero della Salute da parte della Corte d’Appello di Roma, che ha respinto al tempo stesso il ricorso del primo riguardo alla sentenza già emessa dal Tribunale di Roma. Questa sera, mercoledì 31 maggio 2017, Le Iene Show e Roberta Rei approfondiranno quella che è stata a tutti gli effetti una piaga del nostro Paese. Tutto parte in quegli anni, sottolinea l’Adnkronos, dalla distribuzione di sacche di sangue provenienti da donatori degli Stati Uniti considerati a rischio. Una situazione che normalmente sarebbe stata bloccata dai dovuti controlli e che in quel caso, invece, non avvenne. 



Nonostante la sentenza del 2012 stabilisca che lo scandalo del sangue infetto sia da attribuire al Ministero della Salute, sono ancora molte le persone ammalate o i familiari di pazienti deceduti negli anni, a dover ricevere il dovuto risarcimento. Secondo quanto sottolineato dall’avvocato Cinzia Ammirati, che da tempo segue da vicino l’inchiesta, il Ministero non si sarebbe ancora mosso per via di una “mancanza di personale per la contabilità”. E questo senza considerare che i figli dei pazienti deceduti hanno dovuto affrontare nel frattempo “problemi economici enormi, legati alla malattia del congiunto”. Nel frattempo tuttavia, come abbiamo visto, il Ministero della Salute ha fatto ricorso alla Corte d’Appello sostenendo che il danno collegato alle trasfusioni dovesse essere attribuito alle singole Regioni, delegando quindi il controllo ad uno step successivo. Diversa invece l’opinione dei giudici della Corte d’Appello, che con l’ultima sentenza hanno evidenziato come in realtà le sacche di sangue avrebbero dovuto subire un controllo preventivo in merito ai requisiti di igiene e “pulizia”. 



Esistono tuttavia dei casi in cui l’inizio dello scandalo del sangue infetto viene attribuito già agli inizi degli anni ’70. Lo evidenzia per esempio il caso di un 40enne, all’epoca del contato 28enne, che è stato infettato con l’epatite C nel 1972 a causa delle trasfusioni. La condanna al Ministero della Salute ha previsto in quel caso un risarcimento di 400 mila euro, di cui tuttavia il paziente non ha potuto beneficiare. Il 40enne infatti è morto a causa delle conseguenze del contagio, dopo aver scoperto di essere malato solo nel 2012. Il virus è rimasto in stato latente per 40 anni ed a nulla sono servite le cure. Inizialmente, sottolinea Il Messaggero, il paziente aveva reagito bene alla terapia, ma in un secondo momento il virus si è ripresentato in modo ancora più aggressivo. La sentenza cita inoltre che il rischio verificatosi nel 1972 non è solo collegato alla selezione poco accurata dei donatori, ma anche alla mancanza di controlli di sangue proveniente dall’estero, dove “era ancora diffusa la pratica dei donatori mercenari”. 

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