È stato un cult-movie inaspettato Guardiani della galassia: inaspettato perché tratto da un fumetto di nicchia, perché senza personaggi di sicuro impatto come altri dei Marvel Studios, perché è una space-opera, genere rischioso fuori dai marchi Star Wars e Star Trek. Eppure il regista James Gunn ha azzeccato una formula perfetta di toni narrativi, riferimenti culturali e capacità cinematografiche che l’hanno reso uno dei film più amati del genere: e il seguito, sempre diretto dallo stesso regista, perfeziona la formula, cerca di ampliare le ambizioni e di raggiungere un pubblico ancora più vasto.
Il film vede protagonisti sempre Peter Quill – alias Starlord – e soci che dopo una missione andata non troppo bene si trovano in fuga e vengono salvati da Ego, un uomo misterioso e potente che si rivela essere il padre di Peter. Ma la ritrovata pace familiare sarà turbata dal passato dell’uomo e dalla sua natura, oltre che dai creditori alle calcagna del gruppo.
Scritto dallo stesso Gunn, Guardiani della galassia vol. 2 è sempre più consolidato in una struttura da avventurosa commedia post-adolescenziale in cui lo spazio e gli effetti speciali si confondono di continuo con l’umorismo e la componente sentimentale dei personaggi, senza dimenticare la ragione profonda del suo successo: il rapporto con gli anni ‘80 da cui prende feticci, icone (Kurt Russel, Sylvester Stallone, David Hasselhoff), humus culturale e in primis musicale.
Gunn infatti ha il gusto e l’abilità di non rendere questo film – come e più del precedente – un nostalgico catalogo di situazioni come fa invece una serie tv di successo come “Stranger Things”, ma mescola elementi narrativi, situazioni, personaggi per realizzare un frullato degli anni ‘80, ossia qualcosa in cui tutti gli elementi sono perfettamente riconoscibili, ma creano un sapore nuovo. Basterebbe dire la coerenza narrativa con cui il personaggio di Peter giustifica il ritorno degli anni ‘80: Guardiani della galassia non cita con gusto cinefilo, ricorda con il candore del bambino. Ma a questi ricordi Gunn unisce una capacità realizzativa da non sottovalutare: crea personaggi iconici e carismatici con pochi tocchi, sfruttando al meglio gli attori (il cattivo di turno, la Nebula di Karen Gillan, lo Yondu di Michael Rooker e ovviamente i protagonisti tra cui Baby Groot che ruba la scena più volte), l’umorismo sfacciato e onesto con cui mette a proprio agio gli spettatori, la frivolezza con cui riscrive una nuova epica del tutto cialtrona e immatura e che approda a un finale con “Father and Son” di Cat Stevens che farà piangere più di uno spettatore.
Senza sottovalutare gli elementi concettuali del film (sottolineati da Emiliano Morreale in un’intervista su Film TV) come il rapporto tra umano e divino che riflette il rapporto apparentemente contraddittorio tra immagine virtuale e bisogno di oggetti fisici e concreti, tra digitale e analogico, tra contemporaneità e antiquariato.
Un film che è un interessante caso di studio per i teorici del post-modernismo e del rapporto tra imperante nostalgia e devastante innovazione tecnologica; ma anche un film – è anche per questa varietà di livelli che i complimenti a Gunn non sono sprecati – in cui divertirsi, appassionarsi ed emozionarsi con genuinità, seguendo le direttive dell’industria che vogliono prodotti sempre più aperti a giovanissimi e famiglie, ma seguendole con cognizione di causa e talento.
Al film poi si potrebbero imputare delle lungaggini nella parte centrale – necessarie in pellicole che devono tutto all’empatia coi personaggi – e un’auto-consapevolezza un po’ troppo furba e calcolata: ma poi, quando parte l’avventura, i colori, l’azione si dimentica tutto. Per fortuna.