«Ah, io sono strettamente un professionista, nient’altro. E non voglio essere altro. A me dà un tale fastidio vedere la mitizzazione che si fa dell’artista, di questa specie di essere semidivino, è una cosa che veramente mi fa vomitare»: anche grazie a un’affermazione così, si possono misurare i quarant’anni trascorsi senza Roberto Rossellini, scomparso a Roma per un infarto venerdì 3 giugno 1977, poco meno di un mese dopo il suo settantunesimo compleanno. Al di là di come egli amava parlare di sé e della sua attività di elezione in privato e in pubblico, non solo celebrato autore del primo lungometraggio neorealista (girato in condizioni precarie, con mezzi e in luoghi di fortuna in un Paese ancora devastato dalle ferite lasciate dal fascismo e dalla Seconda guerra mondiale), non solo riconosciuto maestro di una macchina da presa che egli pose, come i suoi personaggi, «al cospetto della realtà così com’è» (Luigi Chiarini) durante una carriera entrata di diritto nella storia del cinema, ma anche indiscusso innovatore del “fare cultura” attraverso l’allora snobbatissimo schermo televisivo (uno specifico brano della sua parabola artistica tanto decisivo quanto molto spesso dimenticato). Come non rincorrere infatti il filo delle emozioni e dei pensieri che sorgono alla sola idea che i primissimi occhi dietro l’indimenticabile momento della tragica morte di Pina falciata da una raffica di mitra mentre rincorre il camion sul quale i nazisti hanno condotto l’uomo che doveva diventare di lì a poco suo marito sono gli stessi che vent’anni più tardi arrivano a farci scrutare finanche gli inchini della servitù e dei nobili al passaggio del corteo che accompagna “les viandes du roi” direttamente dalle cucine fino alla tavola del Re Sole a Versailles?
Non si tratta quindi semplicemente di ricordare la cosiddetta “trilogia della guerra neorealista” (per distinguerla da quella “fascista”, immediatamente precedente) costituita da Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1947) o la “trilogia della solitudine” con al centro tutte figure femminili interpretate da Ingrid Bergman e formata da Stromboli terra di Dio (1949), Europa ’51 (1952) e Viaggio in Italia (1953). Proprio quest’ultimo titolo venne additato dall’agguerrita squadra di giovani critici raccolti intorno ai “Cahiers du Cinéma” – che di lì a qualche anno, passando dietro la macchina da presa, darà vita alla Nouvelle Vague – quale apice sia del suo autore che dell’intera storia del cinema (e, va da sé, film precursore del loro movimento).
Uno di loro, François Truffaut, scrisse che «Roberto Rossellini è, con André Bazin, l’uomo più intelligente che ho conosciuto. Egli comprende ed assimila talmente in fretta e così tante cose che a cercare di stargli dietro ti lascia senza fiato. Ma bisogna sforzarsi perché si può progredire solo correndo nella sua scia. Fortunatamente per me, Roberto ama le sue creature; altrimenti, quando sono al suo fianco, mi sentirei spaventosamente pesante, stupido, goffo e maldestro. Roberto mi ha insegnato che il soggetto di un film è più importante dell’originalità dei titoli di testa, che una buona sceneggiatura deve stare in dodici pagine, che bisogna filmare i bambini con maggior rispetto di qualsiasi altra cosa, che la macchina da presa non ha più importanza di una forchetta e che bisogna potersi dire, prima di ogni ripresa: “O faccio questo film o crepo”».
E proprio nell’anno in cui sulla Croisette a Cannes ci fu lo sbarco dei primi esponenti della Nouvelle Vague – con la presenza nella selezione ufficiale dei lungometraggi d’esordio di Truffaut (I quattrocento colpi, premio per la miglior regia) e di Alain Resnais (Hiroshima mon amour) e la proiezione fuori concorso dell’opera prima di Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro) – ecco arrivare a Venezia Rossellini per presentare Il generale Della Rovere (1959), cui venne assegnato il Leone d’oro ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli, nonostante si trattasse di un titolo girato su commissione in sole quattro settimane e poco sentito dall’autore, reduce dalle ovazioni ricevute giusto a Cannes dove aveva portato fuori concorso India, terra madre (1958), film documentario nato da un lungo viaggio da lui fatto a partire dal dicembre 1956. Resta comunque il fatto che l’opera premiata a Venezia – oltre a tornare su temi che avevano caratterizzato la stagione neorealista da lui tenuta a battesimo – contribuì a inaugurare un nuovo filone di opere sulla Resistenza, al quale contribuì personalmente con il successivo Era notte a Roma (1960). Di quella memorabile edizione della Mostra si conserva anche una bellissima testimonianza fotografica. Dopo una lezione molto speciale che il “maestro” tenne a un gruppo di registi emergenti, ecco lo scatto che lo ritrae seduto sui gradini insieme a un gruppo di suoi “alunni”: si possono riconoscere Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Carlo Lizzani (suo collaboratore e profondo conoscitore), Citto Maselli e Truffaut.
Un’altra, decisa svolta del suo percorso intellettuale – il passaggio dal grande al piccolo schermo, una delle più significative nella storia della settima arte, visto anche il prestigio della figura coinvolta – era dietro l’angolo: per l’ORFT, l’emittente statale francese, realizzò infatti La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966). Secondo Lizzani, «[c]on la sua innata voglia di ricercare, Rossellini fa il suo film forse più cinematografico proprio con il suo primo film televisivo. Il colore, il costume, il rituale, sono immagini che parlano da sole, che diventano racconto, significato stesso dell’opera. La rappresentazione di sé stesso che Luigi XIV mette in scena in ogni ora del giorno sembra una prefigurazione del potere moderno dei mass-media. Tra una macchina da presa prigioniera degli obblighi di un mercato sempre più rigido e l’interesse di Rossellini sempre più appassionato per i grandi personaggi della storia, la scelta è radicale e definitiva». Fu l’avvio di un’ultima parte della carriera che lo portò – tra gli altri – ai cinque episodi degli Atti degli apostoli (aprile-maggio 1969) e ai tre di L’età di Cosimo de’ Medici (dicembre 1972 – gennaio 1973), unitamente ai film per la televisione Socrate (1970), Blaise Pascal (1972), Agostino d’Ippona (1972) e Cartesio (febbraio 1974).
Il giorno prima di morire aveva firmato il contratto per Lavorare per l’umanità, titolo della tesi di laurea di Karl Marx e scelto per la sua nuova fatica con al centro il giovane Marx. Prosegue Lizzani: «Io credo che le opere per il piccolo e per il grande schermo siano speculari: nel cinema il pulviscolo della Storia, la gente di tutti i giorni, i rottami lasciati dalla risacca del dopoguerra o dalla civiltà del benessere; in televisione, invece, i grandi protagonisti del pensiero e della vicenda storica. In questi film sulla Storia dell’Uomo c’è sempre l’evocazione di quelle dimensioni universali di spazio e di tempo in cui gli esseri viventi emergono, ricercano, si interrogano sul destino della propria esistenza e sui valori comuni al di là delle barriere etniche, religiose e ideologiche». Piccolo schermo ma grandi figure e ideali.