Dopo il battesimo degli Avengers, in Captain America: Civil War, Spider-Man è in attesa di continuare la sua avventura di aspirante supereroe. Riceve da Tony Stark una tuta tecnologica, che fa immaginare meraviglie, ma purtroppo nessun incarico o missione speciale che possano finalmente farlo sentire grande. Così Peter, nell’attesa spasmodica di crescere, si esercita a fare il supereroe, causando danni collaterali di lieve entità che infastidiscono l’Iron Man paterno, che tutto vede e tutto controlla. Quando però scenderà in campo l’Avvoltoio, criminale rancoroso e antisistema, sarà arrivato il momento anche per Spider-Man di mettersi alla prova.
Siamo al terzo rilancio di Spider-Man. Dopo Sam Raimi (con Tobey Maguire) e Marc Webb (con Andrew Garfield), è la volta di Jon Watts, regista del modesto Clown, assieme al giovane Tom Holland, già visto in Captain America: Civil War e nelle sale proprio in questo periodo con Civiltà perduta.
Operazione riuscita? Forse. Spider-man: Homecoming cambia direzione rispetto ai precedenti, partendo dalla scelta del protagonista, il più giovane attore di sempre a interpretare Spider-man, 21 anni nella realtà e 15 nel film. Per gran parte del film ci tocca ricollocare la nostra idea di supereroe nel genere “teen movie”: high school, compagni di scuola, prime cotte, bravate, ricerca dell’identità.
Non che il film non risulti brillante da questo punto di vista: il ritmo c’è, la simpatia anche, la comicità forse non proprio. Ma Tom nei panni di Peter Parker fa tenerezza, così come il suo amico del cuore Ned, incontenibile nerd sovrappeso. Insieme, protagonisti di un rapido e tumultuoso processo di autoconsapevolezza, vanno alla scoperta del mondo degli adulti, con la curiosità tipica di chi ha fretta di imparare.
Ed è così che Peter fa esperimenti, sogna in grande, gioca a fare il supereroe stagista, mentre il saggio mentore Tony Stark, a capo della combriccola degli Avengers, lo lascia inspiegabilmente a riposo. A suo fianco il sempre presente Ned, esaltato dall’avere per amico una giovane leggenda, incontenibile nell’immaginazione e proiettato, nel futuro, a essere “l’uomo della sedia”, quello che, accanto all’eroe vero, sa sventare minacciosi attacchi terroristici risolvendo complessi problemi informatici.
In un teen movie non può mancare, come è giusto che sia, il ballo della scuola, con il romantico gioco delle coppie, gravido di testosterone adolescenziale. Per due terzi del film dunque Spiderman è un gioco, gli Avengers un contorno e i supereroi un abbaglio.
Abbiamo dunque sbagliato sala? No. Spider-man: Homecoming è il riposizionamento di un supereroe, più affine al mondo Disney che alla Marvel cinematografica (dal 2009 anch’essa Disney) anche se, fumetti alla mano, la storia di Spider-man: Homecoming è piuttosto fedele allo spirito originale e rivela un grande rispetto per la materia. Ma è indubbio che, per chi è abituato all’universo cinematografico, Homecoming sembra tracciare un percorso un po’ diverso, anche se non così isolato nelle esplorazioni commerciali di oggi. Un percorso che piace e tiene stretti a sé i ragazzini, coi loro genitori al seguito, che tracciano le regole dei campionati d’incassi.
Tutto questo avviene fino all’arrivo del cattivo, presentato all’inizio del film e interpretato da Michael Keaton, il Birdman di Inarritu, mutevole e diabolico. Birdman spaventa e distrugge, conquistandosi rapidamente e con merito la palma dell’antagonista che non vorresti mai incontrare. Ed ecco spuntare Spider-man a dargli filo da torcere, a crescere tutto d’un colpo, per essere davvero all’altezza del gioco. Mezz’ora o poco più di scontri, voli, ferraglia e rumori. Un robot alato di fronte a un giovane uomo, con scarsi poteri, grandi responsabilità e prodigi tecnologici nella sua tuta, made in Stark Industries.
Se la formula sia sufficiente a resistere al tempo non possiamo ancora dirlo. Certo è che, da spettatore, al di là delle storie, il taglio adulto e immaginifico di autori come Raimi o Nolan fa un po’ nostalgia.