Black Butterfly si presenta come un thriller psicologico che, in realtà, è una riflessione sulla costruzione delle storie, un viaggio nella mente dello scrittore con un doppio finale che si spiega solo in questa prospettiva. Il film di Brian Goodman, adattamento del francese Papillon noir, racconta la storia di Paul (Antonio Banderas), uno sceneggiatore che vive in una casa isolata ai margini del bosco e si sta confrontando con il famoso “blocco dello scrittore”. La moglie l’ha lasciato quattro anni fa e Paul ha gettato la spugna, non lavora più e, per andare avanti, è costretto a vendere il suo rifugio in mezzo al nulla. Per farlo si affida a Laura (Piper Perabo), una bella ma inesperta agente immobiliare dalla quale sembra essere attratto. 



La sua vita, però, cambia bruscamente quando incontra un giovane vagabondo di nome Jack (un inquietante Jonathan Rhys-Meyers). Il misterioso viaggiatore lo salva da una rissa, accetta un passaggio e si installa in casa sua, dimostrandosi un ottimo cuoco e falegname. Peccato che Jack riveli ben presto un carattere ossessivo e violento: costringe Paul a scrivere la loro storia, lo minaccia e lo imprigiona dentro casa. Paradossalmente, mentre Paul si rende conto di avere ospitato un serial killer, ritrova l’ispirazione e comincia a lavorare. Quando anche Laura si trova coinvolta nel sequestro, ecco il grande colpo di scena: la storia si rovescia, portando lo spettatore a chiedersi quale sia la realtà e quale la finzione, in un gioco di dubbi e ribaltamenti.



La riflessione alla base del film è interessante: si esplora la mente dello scrittore, la costruzione di una trama e dei finali possibili, mettendo in scena due protagonisti borderline che ben si prestano a creare mistero, tensione e inquietudine. Fin qui, tutto bene. Il paesaggio sempre immerso nella foschia riflette la confusione di Paul, in volontario isolamento dal resto del mondo, trasmettendo allo stesso tempo quel senso di pericolo e di minaccia tipico del genere. Non ci sono effetti speciali, anzi: la pellicola ha un che di artigianale, un ritmo lento in certi punti, perché la tensione è affidata per lo più alle atmosfere e alla recitazione dei due protagonisti. 



Il problema è che, giocando con i meccanismi narrativi, gli sceneggiatori decidono di offrire un finale originale e uno scontato, che sul momento lascia (molto) perplessi. Si può immaginare che la contrapposizione sia voluta: ogni storia può concludersi in tanti modi diversi, più o meno inaspettati, più o meno plausibili, più o meno banali. Forse l’intento era proprio quello di mostrare come una trama possa prendere strade opposte, scadere nel mediocre oppure sorprendere, mettendo lo spettatore di fronte a entrambe le possibilità nella stessa pellicola. In questo senso, Black Butterfly ha una sua originalità e invita a riflettere, rivelandosi uno di quei film che si capiscono solo a posteriori, dopo avere ripensato al rovesciamento finale e al significato che racchiude.