Nel 1991 Giovanni Testori aveva ancora una volta affrontato la sfida con un grande testo classico: dopo Amleto, Macbeth, Edipo e Faust questa volta si era confrontato con l’Orestea di Eschilo (ma incrociando anche l’Elettra di Sofocle). Scrisse un testo teatrale a forma di monologo che venne rappresentato, come tutti gli ultimi suoi testi, da un grande Franco Branciaroli al Teatro Goldoni di Venezia. Testori si approccia a un grande mito classico con grande amore, ma anche con straordinaria libertà e a volte irriverenza. Il suo è sempre un teatro al presente, nel senso che registra la pressione del suo tempo, le domande e le inquietudini che lo attraversano. Per questo il rapporto con i classici e con ciò che il passato ha lasciato in eredità al presente è un rapporto vivo, sempre di bruciante attualità.
Testori in un certo senso violenta questi miti nel nome di un’urgenza culturale ed esistenziale. Li “violenta” a partire dal nome. Oreste così diventa “sdisOrè”. Un nome che evidenzia immediatamente due cose. Primo, che siamo di forte a un ribaltamento del mito: quel prefisso “sdis” indica proprio un rovesciamento radicale. Dopo la vendetta consumata nei confronti della madre Clitemnestra e del suo amante Egisto per l’uccisione del padre Agamennone, Oreste contro la volontà della sorella Elettra decide di rinunciare al potere e chiedere qualcosa del tutto estranea alla mentalità greca: il perdono (come dice nel testo, la lingua greca non ha parola per definire “perdono”). La seconda cosa che il nome evidenzia è la lingua: Testori come in quasi tutti i suoi testi teatrali a partire dalla grande stagione con Franco Parenti, fa ricorso a una lingua reinventata, potente, che arriva diretta sugli ascoltatori e li investe con una forza quasi fisica. È una lingua che affascina gli attori, perché di una dirompenza che da sola fa teatro, senza bisogno di altro. Una lingua che si fa corpo con l’attore o l’attrice che la interpreta, come accade anche al bravissimo Michele Maccagno che porta al Meeting di Rimini proprio “sdisOrè” (questa sera al Teatro Novelli).
Ebbene questa lingua che è sempre in continua trasformazione e adattamento ai personaggi, è la straordinaria sorpresa per gli spettatori: una volta rotte le difficoltà delle prime battute, è una lingua che conquista e che diventa immediatamente famigliare, proprio per quella sua capacità di aderire alle cose e di essere onomatopeica rispetto ai sentimenti e agli stati d’animo dei personaggi.
Ma l’Oreste rivisitato da Testori ha un elemento che lo rende ancora più affascinante se risentito oggi. È un elemento che emerge nel meraviglioso discorso finale del protagonista, quando, consumata la sua vendetta in modo anche grandguignolesco, si rivolge al popolo della sua città, Argo. È lì che la prospettiva cristiana di Testori soppianta quella greca, con un crescendo stupendo e coinvolgente di pathos e insieme anche di imprevedibile ironia. Oreste annuncia di voler rinunciare al potere sulla città e di cercare solo il perdono. E siccome nella sua lingua di origine non c’era parola che potesse esprimere proprio il perdono, ecco che gli vengono in soccorso i “don don” delle campane lombarde in cui Testori ha trasferito il mito.
È il suono delle campane che riempie l’aria a suggerire la parola (“perdon, perdon, don don”) dice Oreste in un passaggio martellante di indimenticabile poeticità, grazie all’interpretazione di Maccagno («un commovente gioco di parole pascoliano», lo definì Giovanni Agosti sul Manifesto, all’indomani della pubblicazione del testo nel 1991). Testori da parte sua in un’intervista spiegò che quello di Oreste è il bisogno di un perdono che sia “una luce”. Il perdono che è il volto stesso di Cristo.