Shine è un film del 1996 e l’attore Geoffrey Rush ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista impersonando il pianista David Helfgott. Un film non certo facile, per molti palloso; una storia vera, un po’ romanzata, ma che fa palpitare il cuore. Non c’è action e adrenalina, è un film che parla della vita, del destino, di amore, dolore e arte.



Diverse cose mi hanno colpito in questo film. Partiamo dalle immagini. In primis, l’acqua della pioggia che bagna il protagonista completamente; le gocce che cadono sui vetri della macchina come il picchettare sui tasti del piano; l’acqua aperta del lavandino, doccia e vasca; David che si butta contento tra le onde. Acqua come purificazione. Un’altra immagine è quella di David contento che salta sul tappeto elastico con solo l’impermeabile e le cuffie. Mi viene in mente una parola non certo semplice: libertà. Cresciuto in una famiglia ebrea con un padre padrone non molto devoto e che puntava su di lui per farlo diventare un vincente obbligandolo alla sua volontà, lo appiattì, lo rase al suolo psicologicamente e umanamente. 



Pianista talentuoso, David Helfgott vinse una borsa di studio per perfezionarsi in America, ma il padre gli negò la possibilità. Quando gli fu offerta l’opportunità di andare a Londra si ribellò al padre che lo cancellò dalla famiglia. Il genitore aveva deciso il percorso del figlio, voleva e imponeva che fosse un vincente, ma che il riferimento della sua vita fosse sempre suo padre. Afferma egoisticamente: ”Io sarò sempre con te”. È qui mi sovviene la parola destino. Come non volere il bene dei figli per cui spesso si spende la vita? Il loro compimento vero non è nelle mani di noi madri e padri che li abbiamo messi al mondo, a un certo punto bisogna lasciarli andare ed è la libertà di essi che si muove, in bene o in male.



Non c’è vita senza dolore. Questo è il pensiero del padre che ricorda come il suo gli distrusse il violino comprato con i risparmi. ”La vita è tragedia. Vivere per sopravvivere”. Queste sono le frasi che David, adulto, farfuglia all’inizio del film, frasi che lo sovrastano, che lo condizionano; frasi che ha sempre udito dal genitore: ”La vita è crudele ma bisogna sopravvivere”. Per debolezza costitutiva e per non aver mai forse sentito una brezza di speranza e d’amore, David si rifugia nel suo mondo, impazzisce.

Sarà l’amore di una donna e la musica (come desiderio costante di una possibilità di espressione naturale e umana) che lo salverà. Il padre cercherà il perdono del figlio, lo andrà a trovare, ma lui non lo concede, si gira di spalle, anche se, guardando il vecchio in strada dalla finestra, c’è in lui un riverbero di commozione. Quando David è adolescente incontra una donna ormai anziana, che lo prende sotto la sua ala, lo capisce nella sua sensibilità e umanità e nel suo talento, tanto che gli dice: “Quando suoni per me esprimi una cosa inesprimibile”.

Non suona Prince o Fedez, suona il Concerto n. 3 per pianoforte di Sergej Rachmaninov, una musica che è sicuramente drammatica ma che nel suo svolgersi ”è come una liturgia che celebra il Destino” (queste parole son di un amico che di musica classica ne ha sempre capito più di me). Così lo è stato per David Helfgott. Un Oscar, quello del 1997, che doveva per forza essere dato a Geoffrey Rush. Un’interpretazione difficile ma fatta con il cuore.

Tanto per darne notizia e per suscitare in voi un confronto critico, il film vincitore dell’Oscar fu Il paziente inglese.