Nell’anno della clamorosa gaffe alla cerimonia dei premi Oscar, quando assieme a Faye Dunaway sbagliò il nome del vincitore come miglior film, è bello vedere Warren Beatty tornare in attività come attore e come regista, attività secondaria nella sua carriera, ma che ha dato almeno un grande film, Reds. Dopo molti anni di pausa e attesa, Beatty torna alla regia con L’eccezione alla regola in cui si conferma interessato alle ricostruzioni d’epoca di lusso. 



In questo caso, il film racconta la storia tra Marla, una giovane aspirante attrice in arrivo a Los Angeles per un provino, e Frank, uno degli autisti del produttore e multi-miliardario Howard Hughes, che fa da sfondo all’intero racconto: le sue follie, il suo rapporto con il cinema e la politica, la sua passione per gli aerei e la musica. 



Scritto da Beatty assieme a Bo Goldman, L’eccezione alla regola è un film che usa il cinema come un doppio filtro – narrativo e meta-narrativo – per raccontare un’epoca e le sfumature che in 50 anni si sono riverberate poi sulla contemporaneità (a partire dal gioco ironico con cui Beatty incarna Hughes per raccontare il suo rapporto con l’industria). È un doppio schermo piuttosto complesso, che si ribalta di continuo: in primo piano una storia d’amore, che dovrebbe fornire il pretesto del racconto e invece ne è il lato “riflessivo”, ovvero preferendo alla narrazione la messinscena, la ricostruzione di una potenziale commedia anni ’60, con personaggi casti ma ombrosi e l’amore che appiana gli scandali; sullo sfondo invece c’è il motore portante del film, ovvero la ricostruzione della vita e dei gesti di Hughes, le sue udienze alla commissione per le attività anti-americane, il suo costante rigetto di regole e imposizioni che finì in deviazione psichica. 



Questo continuo gioco di specchi tra ciò che Beatty vuole raccontare e il modo in cui lo racconta finisce però per confondergli le idee: i personaggi seri e il tono ironico sono forzati e poco comunicativi, il cinema classico e il suo doppio post-moderno non creano mai un forte legame all’interno del film. L’eccezione alla regola sembra fermarsi alla struttura convenzionale che vorrebbe mostrare la destrutturazione di quegli anni, alla patina fredda e imbalsamata, alla superficie con cui trasforma Hughes in una macchietta in stile Simpson (il ritratto fatto da Scorsese in The Aviator è ancora il punto di riferimento). 

Beatty purtroppo sembra annegare nell’ansia di voler dire troppo e volerlo fare in un modo esibizionista, perdendo di vista i fulcri del suo discorso: e così per scoprire e dissacrare quell’epoca e quel mondo bisogna tornare al cinema dei Coen, con l’imperdibile Ave, Cesare! che in modo più o meno volontario ha varie affinità con questa cocente delusione d’autore.