Un successo inaspettato quello di Kingsman, versione fumettistica, iper-cinetica e goliardica del mito di 007. Un successo che Matthew Vaughn si trova inaspettatamente a dover replicare tre anni dopo con Kingsman – Il cerchio d’oro: stesso cast di base, stessa trama di base, nuovi attori. L’operazione però non regala le sorprese del primo capitolo. La trama replica di fatto quella del primo film: gli agenti Kingsman, con in prima fila il promosso Gary “Eggsy”, devono affrontare una minaccia globale, ovvero una leader del commercio di droghe (con mania per gli anni ’50) che distribuisce merce avvelenata nel mondo per ricattare i governi.
La differenza nella sceneggiatura di Vaughn e Jane Goldman sta nel viaggio verso gli Usa dove chiederanno aiuto agli Statesmen: ne esce un film d’azione colorato e oltre ogni riga, che però segue il modello standard di ogni sequel hollywoodiano, ossia di più, più grosso, più lungo (2 ore e 20). Che ovviamente non significa più bello, anzi.
Vaughn infatti (che prosegue sulla scia del fumetto di Mark Miller e Dave Gibbons) non fa nessuno sforzo d’invenzione usando il primo film non come punto di partenza ma come griglia, come formula di cui cambiare solo le apparenze con una serie di citazioni e di riferimenti da bulimia cinefila: per esempio, il celeberrimo piano sequenza con Colin Firth nella chiesa è qui imitato nel gran finale con i due agenti nel covo del male; oppure la cattiva Julianne Moore sostituisce Samuel L. Jackson con un piano simile (ieri erano i cellulari, oggi le droghe: odore di metafora?) copiando spudoratamente il personaggio di Mamma in “Futurama”, anche nell’ossessione nostalgica e via dicendo. Ma tutto il film, più che uno scanzonato spy movie sembra un cartoonesco riciclo che gioca solo di accumulo e mai di invenzioni, come se due idee mediocri fossero uguale a una buona, come se utilizzare le star o la satira un po’ a caso sia indice di creatività.
Quello che sfugge agli autori di Kingsman – Il cerchio d’oro è che il primo basava interamente la sua riuscita su due fattori: il dinamismo plastico e fisico delle scene d’azione e le sorprese dal punto di vista narrativo (vedasi lo straordinario finale con le teste che esplodono psichedelicamente). Il primo è sostituito non troppo bene da un’invadente computer grafica che rende il film più freddo e statico; le seconde sono annullate proprio dalla ripetizione, dalla sensazione di lato B, da una normalizzazione narrativa con morti che tornano e mogli gelose la quale elimina i tentativi di oltraggio visivo (il microchip nella vagina).
A volerlo prendere come semplice passatempo giocoso, il film ha i suoi momenti godibili, come la sequenza sulle nevi con spettacolare duello sulla funivia, e gli attori si divertono, ma è un deciso passo indietro rispetto alla gioiosità avventurosa del primo e il continuo ricordo del precedente film, unito a una mancanza di narrazione, rende il ritmo stucchevole. Si sorride certo, ma la bocca si apre per sbadigliare oltre che per stupirsi.